Class action
(a) Le novità introdotte dal nuovo art. 140 bis c. cons. Numerosissime sono le novità, in tema di azione di classe, introdotte dal nuovo art. 140 bis c. cons. Il legislatore, facendo tesoro delle osservazioni critiche dei primi commentatori, ha riformato l’istituto e, tra l’altro:
1. riconosciuto la legittimazione del singolo componente della classe a proporre l’azione, aggregando gli interessi degli altri soggetti lesi;
2. precisato con più attenzione i diritti oggetto di tutela;
3. definito i caratteri e la natura dell’atto di adesione;
4. eliminato la possibilità di proporre altre azioni di classe aventi il medesimo oggetto e la facoltà di intervenire nel giudizio collettivo;
5. prescritto che la sentenza resa al termine del giudizio non sia più di solo accertamento ma, anche, di condanna alle restituzioni o al risarcimento dei danni;
6. conseguentemente rimosso ogni traccia dei giudizi individuali di completamento ovvero delle procedure conciliative volte alla liquidazione dei danni.
(b) Le prospettive aperte dal nuovo strumento di tutela è prematuro pronosticare quale sarà il grado di effettività offerto da questo nuovo strumento di tutela giurisdizionale; certo è che la disciplina attuale necessita di ulteriori regole integrative che colmino i notevoli spazi di incertezza ancora presenti nello scarno testo riforma
- 1. Notazioni introduttive e metodologiche
- 2. La natura del nuovo strumento processuale: si tratta di una class action?
- 3. L’oggetto dell’azione: i diritti tutelabili
- 4. La legittimazione ad agire
- 5. L’adesione
- 6. Il filtro giudiziale e lo svolgimento del giudizio
- 7. La sentenza collegiale
- 8. Osservazioni conclusive
1. Notazioni introduttive e metodologiche
A distanza di poco più di un anno, torniamo a commentare1, su questa rivista, il nuovo testo dell’art. 140 bis c. cons. che, nell’originaria versione, disciplinava l’«azione collettiva risarcitoria» ed ora regola l’«azione di classe».
Lo spunto nasce dalla l. 23.7.2009, n. 992, che ha ridisegnato un istituto criticato da dottrina, associazioni professionali, di categoria e dei consumatori, sia sotto il profilo tecnico-giuridico che di funzionalità ed efficienza, tanto da essere giudicato inutile e dannoso.
Questo saggio vuole verificare in quale misura siano state recepite le osservazioni, le censure e le proposte di emendamento, formulate nei diciotto mesi decorsi dalla prima stesura della legge (Finanziaria 2008). Abbandona, invece, ogni pretesa definito- ria e di raffronto comparatistico, pur mantenendo la struttura argomentativa della precedente rassegna.
Nel nuovo testo, l’azione di classe3 si pone, ancor più espressamente, l’obiettivo di fornire una tutela giurisdizionale, aggiuntiva e alternativa4, contro gli illeciti contrattuali o extracontrattuali produttivi di danni nei confronti di una pluralità di utenti o consumatori.
Sin dalla rubrica dell’art. 140 bis c. cons., vengono superate le frequenti imprecisioni terminologiche che avevano creato note- voli perplessità sull’oggetto dell’azione. Il procedimento abbandona i residui caratteri distintivi dell’azione collettiva, tipica degli ordinamenti di civil law, per evocare la disciplina della class action americana. Sparisce, dunque, ogni riferimento alla locuzione «interessi collettivi dei consumatori e degli utenti», che piu` volte compariva nella precedente stesura.
Se è pur vero che già i più attenti commentatori avevano compreso come l’azione collettiva risarcitoria non proteggesse i diritti di natura indivisibile, appartenenti a più persone collegate tra di loro da un’identica relazione giuridica5, letterali e precise indicazioni6 rendono ora indubitabile che l’omologa azione di classe tutela esclusivamente «i diritti individuali omogenei dei consumatori e degli utenti». Si tratta di quegli interessi isomorfi, generati da un’unica condotta illecita7, divisibili, che fanno capo ad ogni singolo interessato ma che possono essere protetti in modo più efficace a livello collettivo.
A tale scopo la struttura del giudizio viene semplificata e razionalizzata, non essendo più articolata in due fasi, l’una, collettiva, di accertamento, proposta dall’ente esponenziale e l’altra, individuale, volta ad ottenere la condanna. Il processo si svolge in un’unica sede e si conclude con una sentenza che accerta la responsabilità e nel contempo condanna l’impresa al risarcimento del danno o alle restituzioni. Oggetto del giudizio e del conseguente giudicato sono, quindi, i crediti risarcitori e restitutori dei singoli.
La legittimazione ad agire appartiene a «ciascun componente della classe» ed e`, quindi, preminentemente individuale. Associazioni e comitati, un tempo esclusivi titolari dell’azione, sono an- cora possibili «promotori», ma la loro importanza – come vedremo nel paragrafo successivo – si è notevolmente ridotta.
Quanto alla competenza, permane il criterio di collegamento del luogo in cui l’impresa convenuta ha la sede, ma è necessario adire il tribunale (ordinario, non una sua sezione specializzata) «del capoluogo di regione». In relazione ad alcune ipotesi8, è` peraltro previsto un ulteriore accorpamento disposto dal 4º co. Il collegio, esaminato l’atto di citazione9, statuisce sull’ammissibilità della domanda con un’ordinanza reclamabile avanti la Corte d’Appello. Il provvedimento, che, tra l’altro, definisce l’ambito del giudizio, i criteri ed i limiti per aderire all’azione, deve essere pubblicizzato a cura del proponente ed a pena di improcedibilità della domanda.
Il processo prosegue, poi, secondo le cadenze, le preclusioni e gli adempimenti, anche probatori, determinati dalla Corte che, nell’organizzarne il corso, gode della più ampia libertà, con l’unico vincolo dell’«equa, efficace e sollecita gestione» nonché del «rispetto del contraddittorio».
In caso di accoglimento della domanda, la controversia si conclude con una sentenza di condanna che liquida, secondo parametri equitativi, «le somme definitive dovute a coloro che hanno aderito all’azione o stabilisce il criterio omogeneo di calcolo per la liquidazione» di tali importi.
Il dato letterale concorre nuovamente a chiarire che il risultato per cui viene promossa la class action deve essere conseguito nel corso della procedura. Resta, pertanto, esclusa la possibilità che la sentenza dichiari semplicemente l’illiceità del comportamento denunciato, la responsabilità dell’impresa e la mera sussistenza del diritto al risarcimento del danno o alla restituzione delle somme in favore dei singoli consumatori aderenti all’azione10. Scompare, conseguentemente, ogni traccia dei separati giudizi o delle varie procedure conciliative, contemplate nella vecchia formulazione dell’art. 140 bis c. cons., in cui i singoli consumatori o utenti agivano per la liquidazione dei loro crediti individuali.
Anche la pronuncia che «stabilisce il criterio omogeneo» per calcolare gli importi da corrispondere o restituire a coloro che abbiano deciso di essere soggetti all’esito della class action, deve essere qualificata come «titolo esecutivo», se non si vuole tradire lo spirito della legge. In questa particolare ipotesi, infatti, il requisito di liquidità richiesto dall’art. 474 c.p.c. e` soddisfatto dalla possibilità di determinare esattamente l’ammontare del credito attraverso mere operazioni matematiche11.
Rimanendo in tema, il 12º co., con una strana previsione in deroga al disposto dell’art. 282 c.p.c., stabilisce che la sentenza divenga esecutiva soltanto decorsi centottanta giorni dalla sua pubblicazione. Si vuole cos`ı agevolare un accordo definitivo tra le parti, anche prevedendo che i pagamenti delle somme dovute, effettuati durante tale periodo, siano esenti da ogni diritto e incremento (compresi gli accessori di legge maturati dopo la pubblicazione della sentenza).
Un’altra particolarità è legata al disallineamento tra l’entrata in vigore delle nuove norme a livello processuale (intesa come data di azionabilità) e quella sostanziale.
La class action, il cui oggetto sono le pretese risarcitorie derivanti dagli illeciti commessi12 o le obbligazioni nascenti da atti o fatti verificatisi a partire dal 15.8.2009, potrà essere proposta solo a partire dall’1.1.2010.
Il debutto in due tempi è l’effetto del mancato coordinamento tra la proroga al 2010 contenuta nel «decreto anticrisi» e la revisione dei contenuti e delle modalità dell’azione inserita, invece, nella legge «per lo Sviluppo», in vigore dal Ferragosto 2009.
2. La natura del nuovo strumento processuale: si tratta di una class action?
L’azione collettiva risarcitoria, nella sua originaria formulazione, era profondamente differente dalla class action di stampo nord-americano, poiché ne mutuava solo alcuni caratteri: la funzione risarcitoria o restitutoria, i diritti oggetto di tutela e l’idea del preventivo vaglio di ammissibilità della domanda.
Dopo la riforma, i punti di contatto tra i due istituti sono più numerosi.
Entrambe le azioni, in primo luogo, riconoscono al singolo individuo la legittimazione a proporre la domanda anche nell’interesse di tutti coloro che siano stati lesi dal medesimo comportamento illecito. Nel nostro ordinamento, però, l’ambito soggettivo continua ad essere fortemente circoscritto: la titolarità della domanda è limitata ai consumatori ed utenti, i quali possono agire solo contro le imprese ed (ora anche) i gestori di servizi pubblici o di pubblica utilità13.
L’individuo, l’associazione o il comitato promotore non hanno, inoltre, la possibilità di dedurre automaticamente in giudizio, con potere di rappresentanza diretta e presunta, i diritti di tutti i membri del gruppo14. Non possono tutelare le pretese dell’intera classe, ma solo di quei soggetti che, danneggiati dal medesimo comportamento illecito, abbiano deciso di avvalersi dell’azione collettiva.
Questi ultimi devono, quindi, conferire all’attore una procura per rappresentarli sin dall’inizio del processo o devono manifestare la volontà di aderire all’azione, nelle forme e nei modi prescritti dal 3º co. (c.d. «opt in»).
Un secondo punto di contatto con l’esperienza statunitense è rappresentato dal recepimento del principio di unicità del giudizio.
Salvo due eccezioni, ad una specifica domanda/azione consegue un unico processo, come confermato dalla previsione secondo cui:
- l’adesione comporta rinuncia a ogni azione restitutoria o risarcitoria individuale fondata sul medesimo titolo;
- la sentenza che definisce il giudizio fa stato anche nei confronti degli aderenti;
- è escluso l’intervento di terzi, ai sensi dell’art. 105 c.p.c.;
- dopo la scadenza del termine per l’adesione non sono proponibili ulteriori azioni di classe per i medesimi fatti e nei confronti della stessa impresa15.
Per rispettare l’ineludibile dettato costituzionale, anche nel nuovo testo dell’art. 140 bis c. cons., è fatta salva l’azione individuale dei soggetti che non aderiscono all’azione collettiva. Diversamente, si sarebbero violati il diritto di azione di cui all’art. 24 Cost. ed il principio della domanda (artt. 2907 c.c. e 99 c.p.c.), alla luce dei quali il nostro ordinamento conferisce, di regola, il diritto di agire in giudizio esclusivamente a chi si afferma titolare della posizione di vantaggio. Ma, ove si tratti di small claims, la deroga è più teorica che pratica: quando i danni patiti sono cos`ı lievi da rendere economicamente svantaggiosa ogni opzione diversa dall’aggregazione processuale delle pretese individuali, il singolo difficilmente procederà in maniera autonoma.
La seconda eccezione è una conseguenza immediata del fatto che il promotore non ha un incondizionato potere di gestione del processo, non può disporre del diritto dell’aderente, necessita sempre del suo consenso per una liquidazione concordata (giudiziale o stragiudiziale) che involga anche il danno patito dal singolo.
In questi casi il consenso dell’aderente è indispensabile, perché, in difetto16, ‘‘rinasce’’ il diritto all’azione restitutoria o risarcitoria individuale (abdicata con l’atto di adesione). Il 15º co. conseguentemente prevede che, qualora tra le parti (attore/impresa convenuta) intervengano rinunce o transazioni, esse non pregiudicano i diritti degli aderenti che non vi hanno espressamente consentito. Gli stessi diritti sono fatti salvi anche nei casi di estinzione del giudizio o di chiusura anticipata del processo. Tali limitazioni sarebbero assurde nell’ordinamento nord americano, ove l’accordo transattivo (settlement) produce effetti direttamente a favore o a sfavore degli appartenenti alla classe che, rimasti estranei al giudizio stesso, non abbiano espressamente dichiarato di volersi dissociare dall’azione collettiva (opt out).
Notevoli differenze emergono anche negli strumenti e nei criteri che il tribunale adotta per liquidare il danno. Nella class action di common law la sentenza ha identico contenuto per tutti i partecipanti, poiché le posizioni giuridiche strettamente individuali perdono rilevanza. In caso di accoglimento della domanda, la somma complessiva conseguita è ripartita tra i singoli componenti secondo le quote di spettanza ovvero in modo percentuale, nel caso in cui essa risulti insufficiente a soddisfare le pretese di tutti gli interessati.
A causa delle numerosissime critiche al sistema bifasico di accertamento-condanna in cui si sviluppava la ‘‘vecchia’’ azione collettiva risarcitoria, il nuovo art. 140 bis c. cons. si sforza di andare in questa direzione.
La riforma elimina, in primo luogo, i giudizi individuali o le procedure conciliative di liquidazione del danno. Questi procedimenti – macchinosi, probabilmente inefficaci e contrari allo spirito di aggregazione delle azioni seriali – erano stati concepiti per non appesantire eccessivamente il processo nella fase ‘‘collettiva’’. Si era scelto, infatti, di trasferire in altra sede (quella individuale) gli inevitabili accertamenti di tipo personale che mutano con riguardo ad ogni singola posizione lesa.
Demolito questo indebito appesantimento della struttura processuale, sono riemersi i problemi per evitare i quali era stato creato il sistema bifasico, talché la soluzione adottata si rivela ineccepibile solo dal punto di vista del rigore formale. Come abbiamo già ricordato al paragrafo precedente, il giudice deve liquidare le somme definitive, dovute a coloro che hanno aderito all’azione, già all’esito della collective redress action.
Il nuovo art. 140 bis c. cons. tenta, pertanto, di agevolare il compito del collegio alleggerendo il corso del processo:
- solleva l’aderente dall’onere del patrocinio;
- struttura il giudizio con due sole parti processuali;
- esclude (apparentemente) che tale qualifica sia rivestita dal mero partecipante;
- lascia al Tribunale la più ampia discrezionalità nella gestione delle udienze, delle preclusioni, delle attività e dei poteri di cui gode;
- invita il collegio ad adottare «le misure atte a evitare indebite ripetizioni o complicazioni nella presentazione di prove o argomenti».
Tutti questi accorgimenti paiono, però, insufficienti a far fronte al problema pratico rappresentato dal fatto che anche le situazioni omogenee presentano delle differenze. Il nesso causale, l’imputabilità e la colpa sono variabili da caso a caso; alcune voci di danno, la liquidazione degli importi da risarcire o da ripetere hanno carattere individuale e non sono identiche per tutti i soggetti, perché sono parametrate alla concreta lesione subita.
Il legislatore interviene, ulteriormente, in due direzioni.
Da una parte, impone all’aderente di redigere un vero e proprio atto processuale (contenente, oltre all’elezione di domicilio, l’indicazione degli elementi costitutivi del diritto fatto valere con la relativa documentazione probatoria). Torneremo più dettagliatamente sull’istituto nei paragrafi seguenti, evidenziandone le profonde contraddizioni. Ora importa sottolineare che, con questo accorgimento, il Tribunale viene posto a conoscenza, sin dall’inizio, degli specifici elementi costitutivi e probatori geneticamente diversi da caso a caso.
Dall’altra, l’art. 140 bis c. cons. prevede, con lo scopo di agevolare il compito di attore, aderente e giudice, che il danno sia liquidato ai sensi dell’art. 1226 c.c.
La soluzione crea, pero`, almeno due forzature. La prima consiste nel confondere l’equità che nel nostro ordinamento è un criterio di valutazione del danno con l’equity (sistema molto più complesso che involge la giurisdizione, i possibili rimedi alla violazione di un diritto, la valutazione dei fatti e la stessa procedura da seguire).
In secondo luogo, salvo non si voglia stravolgere il significato della legge, il richiamo all’art. 1226 c.c. e` inconferente, perché la predetta norma dispone che il giudice possa ricorrere alla valutazione equitativa soltanto se «il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare». In molte, se non tutte le ipotesi di esercizio della class action, il quantum può essere, invece, provato dettagliatamente. Si tratta di una circostanza pacifica, atteso che lo stesso legislatore pone a carico (anche) dell’aderente l’onere di rappresentare e dimostrare gli elementi costitutivi del proprio diritto. La vera particolarità dell’azione di classe non e`, quindi, costituita dall’impossibilità di provare il danno ma dalla scomodità, lentezza e mancanza di funzionalità di un suo accertamento analitico. Il corso del processo ne uscirebbe appesantito.
La soluzione adottata, svilendo un accertamento imprescindibile, lede senza dubbio l’impresa convenuta e tratta in maniera differente due situazioni omologhe: se l’azione viene esercitata individualmente, l’attore è gravato da un completo onere della prova, da cui viene manlevato se agisce, congiuntamente ad altri, con il nuovo strumento processuale.
Tutto ciò ci fa comprendere come lo scarno testo dell’art. 140 bis c. cons. sia ancora lontanissimo dalla raffinata disciplina della Rule 23 delle Federal Rules of Civil procedure e come i principi fondamentali del nostro ordinamento e la mentalità di giudici ed avvocati siano altrettanto distanti da quelli d’oltre oceano. Un’importante lacuna continua ad essere rappresentata dalla mancanza di una disciplina sul tema «impudico (ma essenziale)»17 delle spese di lite. Rispetto al vecchio testo dell’art. 140 bis c. cons., che lasciava spazio ad alcune interpretazioni volte a legittimare una suddivisone delle spese di lite tra i vari partecipanti/intervenienti, ogni lettura in tal senso risulta preclusa dagli effetti di due novità: la legittimazione all’azione preminentemente individuale e la mutata natura giuridica dell’adesione.
In relazione al primo aspetto, gli oneri economici e pratici a carico del promotore sono notevoli:
- a) se l’azione viene dichiarata «inammissibile» (8º co.) l’attore affronta le spese legali, anche ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comprese quelle «della più opportuna pubblicità`»;
- b) se, invece, essa viene ammessa (9º co.), anticipa i costi della pubblicità ai fini della tempestiva adesione degli appartenenti alla classe e
- c) cura, se così richiesto, il deposito degli (innumerevoli) atti di adesione.
Quanto al secondo aspetto, l’aderente, che non è (necessariamente) difeso dai legali dell’attore ed anzi non ha bisogno di alcun difensore, può`, dunque, sfruttare il patrocinio del promotore.
Nel contempo nessun elemento testuale autorizza l’attore a condizionare l’adesione all’impegno del consumatore/utente di contribuire, pro quota, al pagamento delle spese legali sostenute. In assenza di qualsiasi previsione diretta ad agevolarne il finanziamento, mi pare difficile che i singoli membri della classe (o anche l’associazione rappresentativa dei consumatori) dispongano delle risorse necessarie ad affrontare i costi dell’azione; essi potranno anche avere i fondi necessari per promuoverla, ma difficilmente quelli per proseguirla e, quindi, quelli per sollecitare perizie, indagini tecniche, informazioni ed assumere su di sè il rischio di non vedersi rimborsare da alcuno le spese sostenute18.
Poiché gli onorari professionali continuano ad essere sottoposti alle regole generali, l’unico spiraglio per incrementare l’efficienza dei rimedi giurisdizionali diretti a tutelare gli interessi individuali omogenei pare quello di non ostacolare i patti di quota lite tra avvocato e clienti, ancora consentiti dal nostro ordinamento. Solo così gli studi legali, agevolati da una determinazione del proprio onorario commisurata al risultato, potranno rappresentare un possibile fattore di catalizzazione e di aggregazione della difesa degli interessi tutelati dalla class action.
3. L’oggetto dell’azione: i diritti tutelabili
Nel paragrafo precedente abbiamo enunciato i notevoli limiti soggettivi dell’azione che, comunque, restano sostanzialmente immutati rispetto alla previgente disciplina19.
Quanto a quelli oggettivi, il legislatore agisce in due direzioni. In primo luogo, chiarisce che il giudizio non è volto soltanto all’accertamento della responsabilità ma anche alla condanna al risarcimento del danno e alle restituzioni. Al 2º co. presenta, poi, un’elencazione analitica delle fattispecie tutelate, avendo cura di specificare, caso per caso, che la domanda è ammissibile solo se viene rappresentata in giudizio la medesima situazione, identica per petitum (mediato ed immediato), causa petendi e titolarità passiva del rapporto giuridico sostanziale dedotto. Deve sussistere, inoltre, il requisito della plurioffensività della condotta: e`, cioè, necessario che siano stati lesi i «diritti di una pluralità di consumatori o di utenti» o «i diritti identici spettanti ai consumatori finali». Nella consapevolezza della difficoltà di individuare normativamente l’elemento unificante tra le varie fattispecie, l’indagine è rimessa alla discrezionale valutazione del giudice.
L’azione di classe va, pertanto, esclusa quando le modalità con cui si è verificata la lesione del diritto o la violazione del contratto non possono che esser valutate caso per caso20.
In materia contrattuale la tutela viene estesa al risarcimento del danno e alle restituzioni derivanti dalla violazione di un qualsiasi diritto individuale, comune «ad una pluralità consumatori ed utenti», inclusi i diritti relativi a contratti stipulati ai sensi degli artt. 1341 e 1342 c.c. Confrontando il nuovo testo con il precedente, si nota che, accanto ai contratti conclusi attraverso moduli o formulari, sono contemplate anche le condizioni generali di contratto non conosciute/conoscibili o non specificamente approvate per iscritto dal contraente che non le ha predisposte, fattispecie un tempo irrazionalmente esclusa.
Quanto agli atti illeciti extracontrattuali, cioè le condotte lesive dei diritti soggettivi dei consumatori o utenti, tenute anche al di fuori ed indipendentemente dal rapporto giuridico di consumo e/o utenza, essi sono espressamente limitati alla responsabilità per danno da prodotto difettoso21. Restano, quindi, escluse vicende che rientrerebbero a pieno titolo nel tema generale della responsabilità delle imprese, quali i danni ambientali o le discriminazioni sul lavoro, i danni alla salute comunque cagionati (e non soltanto quelli derivanti dalla vendita di un prodotto difettoso) o quelli causati dalla circolazione stradale.
Le ultime due fattispecie vengono accorpate al 2º co., sub c) e sono rimaste immutate.
In primo luogo vi è il diritto al ristoro del pregiudizio derivante dalle «pratiche commerciali scorrette»22, vale a dire comportamenti che, autonomamente considerati, potrebbero non essere giuridicamente rilevanti (la scorrettezza sembra non importare necessariamente una lesione della sfera giuridica altrui), ma che lo diventano soltanto a condizione che abbiano arrecato, in concreto, un pregiudizio ai diritti soggettivi dei consumatori o utenti. A queste condotte vengono parificati i «comportamenti anticoncorrenziali»23, che si verificano, ad es., allorché i fornitori professionali di beni o servizi concludono accordi di cartello vietati dalla «legge antitrust»24 al fine di tenere alti i prezzi per i consumatori o utenti finali.
4. La legittimazione ad agire
L’azione di classe crea una nuova figura di litisconsorzio facoltativo, che si può definire ‘‘aggregato”25, poiché da` luogo ad una aggregazione di azioni seriali (attraverso le varie adesioni) volte a far valere i diritti individuali omogenei di consumatori ed utenti nei confronti della medesima impresa convenuta.
L’azione consiste nel cumulo e nella gestione congiunta delle azioni individuali degli aderenti ad opera di un componente della «classe», che può agire da solo, nonché «mediante associazioni cui da` mandato o comitati cui partecipa». In particolare, il promotore rappresenta in giudizio, sin dall’atto introduttivo, i singoli diritti al risarcimento o alla restituzione di somme di cui, poi, si affermeranno titolari i consumatori e gli utenti che aderiranno alla sua iniziativa.
La legittimazione ad agire viene riconosciuta (anche, ma direi) essenzialmente in capo al singolo componente della classe. La soluzione caldeggiata dalla più attenta dottrina26 è da accogliere con soddisfazione, perché è più rispettosa che in passato della differenza tra la tutela dei diritti individuali omogenei e la tutela di quelli collettivi e superindividuali, su cui è` già stata richiamata l’attenzione. Proprio nel precedente intervento su questa rivista, avevamo criticato l’attribuzione della legittimazione ad agire al solo ente esponenziale, sostenendo che le associazioni possono ottenere risultati contro il professionista con azioni di tipo inibitorio, ma più difficilmente quando sono in gioco diritti risarcitori o restitutori.
Sostanziali modifiche intervengono anche con riferimento agli altri soggetti legittimati.
In primo luogo, le associazioni non conservano più una legittimazione diretta ed autonoma ad agire in nome e per conto di una pluralità di soggetti non determinati né determinabili (coloro che aderiranno nella forma dell’opt-in). La loro legittimazione passa sempre attraverso il singolo componente della classe, il quale deve dare loro un mandato ad agire in giudizio. Ciò ha comportato anche che il potere di agire per l’accertamento della responsabilità e la condanna al risarcimento del danno o alle restituzioni sia esteso a qualsiasi associazione (anche quelle locali, non registrate); non, quindi, come in passato, le sole 16 associazioni dei consumatori e degli utenti, rappresentative a livello nazionale, elencate nella lista tenuta presso il Ministero delle attività produttive (artt. 137-139 c. cons.)27.
Vi sono, infine, i comitati, ai quali partecipa il componente della classe. Si tratta di enti esponenziali a formazione spontanea e libera, costituiti ad hoc per organizzare una reazione giudiziale collettiva all’illecito perpetrato nei confronti dei singoli appartenenti.
Scompare, inoltre, quella ‘‘condizione’’, un tempo apposta alla legittimazione processuale delle associazioni prive di diffusione nazionale e dei comitati in genere: l’essere «adeguatamente rap- presentativi degli interessi collettivi fatti valere».
Il legislatore, recependo le osservazioni della dottrina, ha compreso che la verifica di un presupposto processuale non può essere affidata al mero arbitrio dei giudici28. Ha svincolato, pertanto, la valutazione della rappresentatività dal concetto di legittimazione ad agire e ha prescritto che tale esame debba avvenire nell’ambito del giudizio preliminare di ammissibilità della domanda.
Al 6º co. ha previsto, dunque, che il Tribunale dichiari inammissibile la domanda quando, tra l’altro, «il proponente» (sia esso individuo, associazione o comitato) «non appare in grado di curare adeguatamente l’interesse della classe».
Al pari della formula adottata nel vecchio testo dell’art. 140 bis c. cons., anche quella nuova è estremamente vaga perché non offre alcuna indicazione sulle modalità e sui criteri che dovranno guidare la decisione. Mi pare, però, che non ci si possa più ispirare ai criteri adottati dalla giurisprudenza con riferimento all’azione inibitoria ex art. 1469 sexies c.c.29, perché essi mal si adattano a descrivere la rappresentatività del singolo componente della classe.
Posso, invece, suggerire che l’«adeguatezza» del soggetto proponente venga considerata sinonimo di capacità e concreta possibilità di raggiungere con i propri mezzi (organizzativi, strutturali ed economici) un numero molto ampio di persone. In sostanza, l’attore, non soltanto dovrà rappresentare che la questione por- tata in giudizio è comune ad una pluralità di consumatori ed utenti, e che sono stati lesi gli stessi diritti individuali omogenei, ma dovrà disporre di strumenti probatori convincenti anche con riferimento alla lesione degli interessi altrui (perizie che dimostrano il nesso causale tra le malattie insorte tra i vari acquirenti di un farmaco e l’utilizzo dello stesso; pluralità di contratti, che presentano le medesime clausole vessatorie, sottoscritti da un congruo numero di clienti del professionista convenuto…). Dovrà, inoltre, dimostrare di aver già coinvolto l’utenza (con contatti telefonici, personali, sui quotidiani nazionali o locali), evidenziando la portata della questione tra i consumatori. La Corte dovrà, infine, tenere in debito conto il profilo della disponibilità delle risorse finanziarie necessarie alla proposizione della lite, ad affrontare le spese di pubblicità dell’ordinanza ammissiva, i costi delle eventuali consulenze d’ufficio e di parte, del deposito (se richiesto) dei vari atti di adesione e l’eventuale rimborso delle spese legali in caso di soccombenza.
Anche se lo abbiamo ripetuto più volte nei paragrafi precedenti, ricordiamo nuovamente che il soggetto promotore non ha il potere di far valere in giudizio (con i limiti oggettivi dello strumento in esame) i diritti di tutti i consumatori ed utenti, ma solo di quelli che sceglieranno di aderire all’azione di classe. Il singolo attore non agisce solo a tutela di un interesse proprio; l’associazione a tutela degli associati da cui riceve mandato; il comitato in rappresentanza dei partecipi. Tutti i soggetti legittimati tutelano una pluralità di uguali pretese risarcitorie cumulativamente trattate in un unico giudizio.
In altre parole, i soggetti dotati di legittimazione attiva non sono un sostituto processuale dei danneggiati (ex art. 81 c.p.c.), né agiscono in rappresentanza ex lege dei consumatori. Essi operano in virtu` di una legittimazione straordinaria ad agire per conto di una pluralità di soggetti non determinati, né determinabili. Il ruolo di parte è assunto dal promotore indipendentemente dalle adesioni e quest’ultimo può compiere validamente tutti gli atti che non presuppongono la capacità di disporre dei diritti (altrui) oggetto della controversia, a partire dalla nomina del difensore. In particolare, il proponente non può rispondere all’interrogatorio formale e rendere confessione, non può deferire o prestare il giuramento30. Ancora, non può rinunciare agli atti o alla domanda, né può conciliare la lite con effetti vincolanti per gli aderenti che non vi abbiano espressamente consentito. Il che significa che non è sufficiente l’eventuale attribuzione preventiva, conferita al rappresentante, del potere di transigere, ma serve un consenso espresso del singolo aderente sul contenuto e, quindi, sulla convenienza economica della proposta di accordo conciliativo31.
Per quanto riguarda, invece, la legittimazione passiva, soltanto un’impresa può essere convenuta, dovendosi comprendere in tale ampia nozione ogni tipo di impresa (sia commerciale che agricola), di qualsiasi dimensione e di qualsiasi forma che svolga un’attività di produzione o di scambio di beni o servizi. Ne restano escluse, quindi, la pubblica amministrazione (ad eccezione degli enti pubblici economici, dei gestori dei servizi pubblici o di pubblica utilità) ed i professionisti intellettuali o i loro ordini professionali.
5. L’adesione
Ciascun consumatore o utente, in virtù di una scelta rimessa all’autonoma valutazione di opportunità e convenienza, invece di esercitare l’azione individuale può aderire all’azione di classe. Il nuovo art. 140 bis c. cons., come abbiamo avuto già modo di anticipare, riconferma la predilezione per il sistema di opt in, in cui il soggetto leso deve attivarsi se vuole essere incluso tra i destinatari degli effetti della sentenza. Al 3º co. vengono chiariti forma, contenuto ed effetti dell’adesione.
Non si tratta più di una semplice comunicazione scritta e recettizia, da inoltrarsi al solo promotore, ma di un vero e proprio «atto processuale» complesso (contenente, tra l’altro, l’elezione di domicilio), per il cui compimento non e, pero, necessario il ministero di un difensore. A differenza di quanto sostengono i primi commentatori32, l’atto non conferisce un mandato al proponente33, poiché non vi è alcun elemento testuale che depone in tale direzione ed, anzi, si ravvisano indicazioni in senso contrario. L’adesione non è un atto rivolto al procuratore dell’attore, non contiene un mandato alle liti, non amplia i confini dello jus postulandi del difensore, non instaura alcun rapporto d’opera con conseguente obbligo di retribuzione.
Sotto il profilo della natura giuridica, è una «comparsa» con valenza sostanziale e processuale, in cui l’aderente manifesta la volontà di essere incluso nel «gruppo» (o «classe attiva») per beneficiare dei risultati dell’azione. E`, inoltre, un atto di esercizio dell’azione nei confronti dell’impresa convenuta, atto che, pertanto, deve indicare gli elementi costitutivi del diritto particolare fatto valere (petitum mediato, immediato e causa petendi), nonché la relativa documentazione probatoria. Può essere, dunque, definito come l’unico strumento con il quale ciascun membro della classe può portare a conoscenza del Tribunale competente la propria situazione particolare all’interno del giudizio aggregato, con rinuncia ad ogni azione restitutoria o risarcitoria individuale.
L’adesione è necessariamente preventiva, in quanto deve essere depositata in cancelleria (anche tramite l’attore) non oltre la chiusura della fase preparatoria del giudizio. Più precisamente, nel termine perentorio – assegnato dal giudice, con l’ordinanza che dichiara ammissibile la domanda – non superiore a 120 giorni dalla scadenza di quello per l’esecuzione della pubblicità.
Il legislatore, facendo tesoro delle osservazioni formulate dall’unanime dottrina, ha eliminato, così, quell’assurda disposizione che consentiva l’adesione anche a giudizio iniziato ed, addirittura, fino all’udienza di precisazione delle conclusioni del processo di appello.
L’ultima parte del 3º co., art. 140 bis c. cons. prevede che, ai sensi degli artt. 2943 e 2945 c.c., il decorso della prescrizione rimanga interrotto dalla notifica della domanda da parte del proponente e, per coloro che abbiano aderito successivamente, dal deposito dell’atto di adesione. La norma è chiarissima e risolve ogni problema sorto in passato in ordine al contenuto dell’atto ed alla necessità della data certa34.
La qualità di parte promotrice, la sua legittimazione ad agire e la procedibilità class action non sono assolutamente condizionate dalla presenza o meno di adesioni.
Anzi, alla data di proposizione della domanda giudiziale, gli altri partecipanti della classe non possono aderire, ma solo esercitare l’azione congiuntamente all’attore, ovvero dare mandato all’associazione promotrice o partecipare al comitato opportunamente sorto.
Nell’atto di citazione le adesioni sono soltanto postulate, perché interverranno dopo che il Tribunale, ammettendo l’azione, avrà definito «i caratteri dei diritti individuali oggetto del giudizio, specificando i criteri in base ai quali i soggetti che chiedono di aderire sono inclusi nella classe o devono ritenersi esclusi dall’azione». Per favorire l’adesione del maggior numero possibile di soggetti interessati, il giudice dispone, quindi, che venga data idonea pubblicità, a cura del proponente ed a pena di improcedibilità della domanda, ai contenuti della propria ordinanza.
Un primo effetto dell’istituto è che la sentenza pronunciata al termine del giudizio fa stato anche nei confronti dei consumatori e utenti che abbiano prestato l’adesione (14º co.). In altre parole, chi scelga di avvalersi dell’azione accetta che la decisione, resa in sede aggregata, produca effetti pure nella propria sfera giuridica. L’adesione comporta, infatti, la rinuncia ad ogni azione restitutoria o risarcitoria individuale fondata sul medesimo titolo. Come abbiamo avuto già modo di ricordare, l’art. 140 bis, 15º co., c. cons., introduce alcune deroghe a tale principio, laddove prevede che «le rinunce e le transazioni intervenute tra le parti non pregiudicano i diritti degli aderenti che non vi hanno espressamente consentito. Gli stessi diritti sono fatti salvi anche nei casi di estinzione del giudizio o di chiusura anticipata del processo». In tutte queste ipotesi, risorge il diritto dell’aderente a proporre l’azione individuale.
Quest’ultimo comma ci consente anche di chiarire che il legislatore considera parti processuali soltanto il promotore e l’impresa convenuta, talché un primo commentatore35 ha affermato che «con l’adesione i soggetti acquistano la qualità di parte del processo solo in senso sostanziale». La richiamata teoria si fonda principalmente sulla lettera della legge e sulla convinzione che gli aderenti non compiano atti processuali.
Questa posizione, a mio parere, non va, però, condivisa: se è pur vero che gli aderenti non subiscono gli effetti del processo in termini di spese, non sono abilitati ad alcuna attività, non possono impugnare la sentenza, nondimeno essi compiono attività processuali quando enunciano i fatti costitutivi del diritto fatto valere o producono la documentazione utile a sostegno delle loro posizioni individuali.
L’adesione, inoltre, se pure in misura limitata incide sulla definizione dell’oggetto del processo, che ne risulta ampliato. Va, quindi, condivisa l’opinione di quella dottrina36 (che nel primo commento all’art. 140 bis avevamo criticato)37, secondo cui il giudice deve vagliare, oltre ai diritti isomorfi, anche gli aspetti personali ed esclusivi (che entrano nel processo con gli atti di adesione), quali il risarcimento del danno, i criteri per quantificarlo, la responsabilità del convenuto, nonché l’illiceità della condotta.
Se questa opinione è corretta, essa, però, comporta notevoli difficoltà applicative, in quanto presuppone un preciso sistema di preclusioni (ora assente) e la garanzia per l’impresa convenuta di poter opporre al diritto particolare svolto con l’adesione, contestazioni specifiche e personali (ad esempio l’intervenuta prescrizione).
Va, infine, sottolineato che il nuovo testo dell’azione di classe, al 10º co., esclude espressamente l’intervento dei terzi ai sensi dell’art. 105 c.p.c., un tempo ‘‘sempre ammesso’’. Anche sotto questo profilo la norma in commento appare ampiamente apprezzabile, perché evita il cumulo di cause connesse il cui svolgimento si sarebbe rivelato tanto più macchinoso quanto più fossero state le parti individuali che hanno affiancato quella collettiva.
6. Il filtro giudiziale e lo svolgimento del giudizio
Il giudizio, che si introduce secondo le regole ordinarie, ha la particolarità di prevedere, nella prima udienza, un preliminare e sommario vaglio di ammissibilità della domanda. Ai sensi del 6º co., il tribunale decide, con ordinanza, sull’ammissibilità dell’azione, a meno che non voglia sospendere il giudizio, quando sui fatti rilevanti è in corso un’istruttoria avanti un’autorità indipendente, ovvero un giudizio avanti un giudice amministrativo. In questa seconda ipotesi, la Corte potrà fare proprie le risultanze, istruttorie e decisorie, che emergeranno dal procedimento. La norma, come avevamo gà evidenziato nel precedente commento, espone il fianco a critiche di violazione dell’art. 24 Cost. (laddove esso presidia l’inviolabilità del diritto di azione), in quanto non contempla la durata massima del periodo di sospensione del corso dell’azione civile, nè l’evento che faccia venir meno tale stato.
Tornando al giudizio di ammissibilità è previsto l’intervento del pubblico ministero, presso il cui ufficio deve essere notificato l’atto introduttivo del giudizio.
La domanda e` dichiarata (con l’uso di una terminologia impropria e contraddittoria sotto il profilo tecnico) «inammissibile quando è manifestamente infondata, quando sussiste un conflitto di interessi, ovvero quando il giudice non ravvisa l’identità dei diritti individuali tutelabili con l’azione di classe»38. Ciò può accadere, ad esempio, quando le questioni personali prevalgono su quella comune, oppure quando la condotta illecita, colpendo un numero esiguo di consumatori, non può essere considerata plurioffensiva e non è perciò`, meritevole di tutela in forma aggregata. Come abbiamo già esaminato al § 4, il legislatore contempla un’ulteriore ragione di inammissibilità (che va a sostituire il vecchio requisito implicito del difetto di legittimazione per mancanza di rappresentatività degli interessi fatti valere): la capacità del proponente di curare adeguatamente l’interesse della classe, vale a dire la «capacità di offrire sufficienti garanzie di serietà e rappresentatività`»39.
Il giudizio di ammissibilità è opportuno sotto un duplice punto di vista: da un lato soddisfa l’interesse di coloro che si affermano lesi nei propri diritti omogenei a far valere le loro pretese in modo aggregato ed effettivo; dall’altro evita all’impresa convenuta un ingiusto danno all’immagine, derivante dalla pubblicità di una class action manifestamente infondata o non occasionata da un illecito seriale.
Se l’ordinanza ammette l’azione, «il tribunale fissa termini e modalità della più opportuna pubblicità`, ai fini della tempestiva adesione degli appartenenti alla classe». Contemporaneamente, il tribunale:
- a) definisce i caratteri dei diritti individuali oggetto del giudizio, specificando i criteri in base ai quali i soggetti che chiedono di aderire sono inclusi nella classe o devono ritenersi esclusi dall’azione;
- b) fissa un termine perentorio per il deposito degli atti di adesione. Copia dell’ordinanza è trasmessa, a cura della cancelleria, al ministero dello Sviluppo economico, che ne cura ulteriori forme di pubblicità, anche mediante la pubblicazione sui relativo sito internet.
Se, invece, l’ordinanza è di inammissibilità, il giudice regola le spese, anche ai sensi dell’art. 96 c.p.c., e ordina la più opportuna pubblicità a cura e spese del soccombente.
In tutte e due le ipotesi, il provvedimento è reclamabile avanti la Corte d’Appello, nel termine perentorio di trenta giorni dalla sua comunicazione o notificazione, se anteriore. La Corte d’Appello decide con ordinanza in camera di consiglio non oltre quaranta giorni dal deposito del ricorso. Il reclamo dell’ordinanza ammissiva non sospende il procedimento avanti il tribunale.
Il nuovo testo dell’art. 140 bis c. cons. affronta anche il problema (oggetto di contrastanti interpretazioni sulla base del previgente testo) delle ulteriori azioni collettive svolte da altri soggetti promotori.
In particolare, ci si chiedeva se, dopo la sentenza che avesse definito il processo collettivo, i soggetti che si affermassero vitti- me dello stesso illecito, ma non avessero aderito all’azione collettiva, potessero riproporre la medesima azione, fondando un comitato ad hoc o rivolgendosi ad un’associazione dei consumatori diversa da quella che aveva promosso il primo giudizio.
Il problema è stato risolto in modo assai opportuno negando l’ammissibilità delle ulteriori azioni di classe, aventi ad oggetto i medesimi fatti e nei confronti della stessa impresa, proposte dopo la scadenza del termine per l’adesione.
Le azioni che, invece, sono state introdotte entro detto termine, sono riunite d’ufficio se pendenti davanti allo stesso tribunale; altrimenti il giudice successivamente adito ordina la cancellazione della causa dal ruolo, assegnando un termine perentorio non superiore a sessanta giorni per la riassunzione avanti il primo giudice.
Sempre con la stessa ordinanza con cui ammette l’azione, il tribunale «determina altresì il corso della procedura assicurando, nel rispetto del contraddittorio, l’equa, efficace e sollecita gestione del processo. Con la stessa o con successiva ordinanza, modificabile o revocabile in ogni tempo, il tribunale prescrive le misure atte a evitare indebite ripetizioni o complicazioni nella presentazione di prove o argomenti; onera le parti» – sic – «della pubblicità ritenuta necessaria a tutela degli aderenti; regola nel modo che ritiene più opportuno l’istruzione probatoria e disciplina ogni altra questione di rito, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio».
Come abbiamo accennato nei paragrafi precedenti, il legislatore impone alla Corte il solo rispetto dei principi costituzionali del giusto processo, talché la predeterminazione dello svolgimento processuale è quasi assente.
La sua disciplina è lasciata alla più assoluta discrezionalità del giudice il quale, pertanto, dovrà calibrarla in funzione delle caratteristiche della controversia concreta.
7. La sentenza collegiale
l tema della liquidazione del danno risarcibile costituisce uno degli aspetti più delicati e problematici dell’azione di classe. Infatti, in ben poche occasioni l’illecito lede ciascun componente della classe in modo identico, cagionando a tutti lo stesso danno. Nella maggioranza delle ipotesi la sua incidenza sul patrimonio delle vittime è diversificata.
Non in tutte le occasioni, quindi, il giudice dovrà disporre la restituzione o il pagamento di somme uguali per ogni partecipante, calcolate in modo identico, o disporre una tutela di tipo indennitario, con voci di danno standardizzate. Spesso dovrà procedere ad un risarcimento più complesso che necessita di un’istruttoria personalizzata e di una liquidazione su base individuale. Basti pensare alla responsabilità per danno da prodotti difettosi, ove la serialità della condotta non impedisce la diversità delle condizioni dannose, o al giudizio promosso dal (consumatore) investitore40, nel quale, oltre che alla restituzione della somma investita, vengono generalmente richiesti, con debite allegazioni ed offerte di prova, anche ulteriori danni collegati alla violazione dei doveri dell’intermediario.
Il riconoscimento di voci di danno patrimoniale e non patrimoniale dall’importo differenziato a seconda del tipo di pregiudizio sopportato non può che essere frutto di un processo approfondito e dilatato nei tempi della decisione.
Prima della riforma il singolo otteneva questa specifica tutela attraverso i giudizi di completamento o in via conciliativa; ora dovrebbe raggiungere lo stesso risultato con la sentenza di condanna resa al termine dell’azione di classe. L’art. 140 bis c. cons. dispone, infatti, che il Tribunale, quando accoglie la domanda, pronuncia condanna con cui «liquida, ai sensi dell’articolo 1226 c.c., le somme definitive dovute a coloro che hanno aderito all’azione o stabilisce il criterio omogeneo di calcolo per la liquidazione di dette somme».
Il richiamo all’equità giudiziale può essere interpretato seguendo due chiavi di lettura. Secondo la prima, il tribunale deve sempre ricorrere alla valutazione equitativa del danno; anche nelle ipotesi di accertamento individuale complesso, deve pronunciare una decisione standardizzata, meno precisa, assimilabile alla fluid recovery41 tipica della cultura giuridica nord-americana42. Scelta questa che, come abbiamo avuto modo di argomentare al par. 2, ci lascia molto perplessi, anche sotto il profilo della sua costituzionalità.
La seconda interpretazione, già emersa in un recente commento43, prevede che, nelle ipotesi di ricadute risarcibili differenti, il tribunale non possa far ricorso «per principio» all’equità giudiziale correttiva, ma debba esaminare le eccezioni riguardanti le singole posizioni ed ammettere le prove dedotte dalle parti.
In altre parole, l’art. 1226 c.c. continua ad essere concepito solo per le ipotesi ivi descritte, in cui risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile provare il danno nel suo preciso ammontare. Il richiamo, seppure espresso, a tale norma, non può, invece, servire come rimedio alla difficoltà dell’ufficio di assumere le prove (a causa della loro numerosità) o alla complessità di gestire in modo aggregato posizioni dissimili.
Al fine di incentivare un adempimento spontaneo alla sentenza di condanna, è previsto uno spatium deliberandi in favore dell’impresa convenuta. La sentenza diviene, infatti, esecutiva de- corsi centottanta giorni dalla pubblicazione44. I pagamenti delle somme dovute effettuati durante tale periodo sono esenti da ogni diritto e incremento, anche per gli accessori di legge maturati dopo la pubblicazione della sentenza.
Quanto alla sospensione della provvisoria esecuzione ex art. 283 c.p.c., la norma precisa che la Corte d’Appello deve tenere conto anche dell’entità complessiva della somma gravante sul debitore, del numero dei creditori, nonché delle connesse difficoltà di ripetizione in caso di accoglimento del gravame. A prescindere da questi aspetti, la Corte può, comunque, disporre che, fino al passaggio in giudicato della sentenza, la somma complessivamente dovuta dal debitore sia depositata e resti vincolata nelle forme ritenute più opportune.
8. Osservazioni conclusive
Alla luce di quanto si e` illustrato nei precedenti paragrafi, mi pare che la valutazione complessiva sulla nuova disciplina dell’azione collettiva non possa che essere positiva.
Vengono, infatti risolti molti dubbi sollevati dalla dottrina, eliminate molte contraddizioni ed adottato un sistema più consono a tutelare i diritti individuali omogenei lesi dai cosiddetti torti di massa.
Le disposizioni contenute nella norma in commento non sono, comunque, esaustive perché il sistema delle udienze e delle preclusioni è lasciato alla discrezionalità giudiziale, la fondamentale questione delle spese legali è stata completamente ignorata, troppo generico è il richiamo «alla capacità del proponente di curare adeguatamente l’interesse della classe», indicato tra i filtri di ammissibilità della domanda. Non è chiaro, inoltre, quale sia il rapporto tra l’attore ed vari aderenti o quali siano i poteri processuali riconosciuti dall’ordinamento a questi ultimi.
Come già avevamo sottolineato a commento della precedente formulazione dell’art. 140 bis c. cons., il legislatore avrebbe fatto meglio a recepire, con maggior coraggio, il meccanismo dell’opt- out, in grado di definire con certezza gli appartenenti alla classe, permettendo l’instaurazione di un processo efficace nei confronti di tutti i soggetti coinvolti.
Siamo certi che l’applicazione pratica evidenzierà tante altre lacune, possibili disfunzioni e, forse, profili di incostituzionalità della norma, talché si dovrà sicuramente elaborare una disciplina integrativa adeguata ad uno strumento di tutela giurisdizionale cosı importante.
- Art. 140 bis c. cons. nella formulazione in vigore dal 1 gennaio 2010
- Art. 2, co. 446-449, l. 24.12.2007, n. 244;
- L. 23.7.2009, n. 99
Il testo integrale della nota è pubblicato su Obbligazioni e contratti, 2009, fasc. 12, pagg. 998 – 1007.
Autore: Francesco Tedioli
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