La Corte Costituzionale, con sentenza n. 135, depositata il 26 giugno 2018, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5-sexies della legge 24 marzo 2001, n. 89, in ordine alla disciplina delle modalità di pagamento degli indennizzi per irragionevole durata del processo.
La previsione di un termine sostitutivo e non cumulativo di 6 mesi, decorrenti dalla trasmissione all’amministrazione tenuta al pagamento della dichiarazione del creditore in ordine alla mancata riscossione della somma dovuta a tale titolo, con i relativi documenti, affinché possano essere esercitate le pertinenti azioni esecutive, realizza, infatti, un meccanismo procedimentale non irragionevole, che non impedisce la tutela giurisdizionale, ma solo, appunto, la differisce per un tempo non eccessivo e la rende anzi eventuale, in coerenza con gli obiettivi generali di razionalizzazione e semplificazione dell’attività amministrativa.
1. La questione di legittimità costituzionale
Il Tar Liguria, con sedici ordinanze di identico contenuto1, sollevava questioni incidentali di legittimità costituzionale dei commi 12, 43, 54, 75 e 116, dell’art. 5-sexies della legge n. 89/2001 (norma inserita nel corpo di quest’ultima dall’art. 1, comma 777, lett. l, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, ossia la c.d. legge di stabilità 2016), il quale disciplina le modalità di pagamento degli indennizzi per irragionevole durata del processo.
Secondo il giudice rimettente, infatti, tale disposizione si porrebbe in contrasto, in primo luogo, con l’art. 3, commi 1 e 2, Cost., comportando un aggravio procedimentale, ingiustificatamente favorevole all’Amministrazione debitrice di somme per equo indennizzo da eccessiva durata dei processi, rispetto alla generalità degli altri creditori della pubblica amministrazione. In particolare, non sussisterebbe alcun presupposto che legittimi un regime più complesso7 per il pagamento e l’esecuzione di tali crediti.
Il Tar, inoltre, ravvisa la violazione dell’art. 24, commi 1 e 2, Cost., laddove il precetto in esame ha introdotto un termine semestrale ulteriore rispetto a quello di 120 giorni, contemplato dall’art. 14 del d.l. 31 dicembre 1996, n. 6698. In altre parole, sarebbe stato ingiustificabilmente compresso il diritto di agire, in via immediata e diretta, pur essendo il creditore in possesso di un titolo esecutivo.
La normativa confliggerebbe, infine, anche con gli artt. 111, primo e secondo comma, 113, secondo comma, e 117, primo comma, Cost. (quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 13 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea [d’ora in poi CEDU]9) e all’art. 47 della CEDU10, per violazione del principio del giusto processo, sotto il profilo della effettività della tutela del creditore nei confronti della pubblica amministrazione.
2. La decisione della Consulta
Con la sentenza in commento11 il giudice delle leggi ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tar Liguria. Nel merito, secondo la Consulta, non può essere condivisa l’interpretazione resa dalle ordinanze di rimessione, secondo cui il termine di sei mesi, di cui al comma 5 della disposizione denunciata, va ad «aggiungersi» a quello di 120 giorni già previsto in via generale, per tutti i crediti vantati nei confronti di un’amministrazione dello Stato12.
La cumulabilità – secondo il Tar – si evincerebbe, in particolare, dalla lettera dell’art. 5-sexies, comma 11, il quale prevede che, in caso di mancato, incompleto o irregolare adempimento degli obblighi di comunicazione di cui al primo comma di tale norma, il pagamento non possa essere disposto neppure nell’ambito dei procedimenti esecutivi già in corso, cioè quelli per i quali il termine contemplato dal predetto art. 14 d.l. n. 669/1996 (120 giorni dalla notifica del titolo esecutivo) costituiva già condizione per procedere ad esecuzione forzata.
Ebbene, la Consulta non ha accolto tale “lettura” del nuovo art. 5-sexies della legge Pinto, non è stata accolta per un doppio ordine di motivi.
In primis, il TAR pretende di desumere, per implicito, da una disposizione transitoria − non censurata come tale − ciò che la disciplina a regime non dice e (in coerenza a quanto emerge dalla relazione illustrativa alla legge di stabilità 2016) esplicitamente anzi smentisce (dacché per testuale dettato del comma 7 i creditori non possono procedere ad esecuzione «prima che sia decorso il termine di cui al comma 5» e cioè appunto, e solo, il termine dilatorio di «sei mesi dalla data in cui sono assolti gli obblighi previsti dai commi precedenti»).
In secondo luogo, afferma la Corte Costituzionale, l’interpretazione proposta dal giudice amministrativo non tiene conto del chiaro carattere di specialità del regime di riscossione dei crediti ex lege n. 89/2001, di cui all’art. 5-sexies della legge stessa. Si tratta, infatti, di una normativa appositamente creata dal legislatore per le peculiarità, e per le attuali dimensioni del debito dell’amministrazione e delle procedure attivate per la sua esecuzione, che hanno finito con l’ingenerare una sorta di contenzioso parallelo a quello delle liti presupposte.
Al contrario, correttamente interpretata, la normativa sottoposta al vaglio della Corte si sottrae alle censure formulate dal Tribunale rimettente. Secondo la Consulta, infatti, non vi sarebbe alcuna violazione dell’art. 3 Cost. In particolare, il termine di sei mesi, di cui alla disposizione impugnata, e quello di quattro mesi previsto dall’art. 14 D.L. n. 669/1996 non posso essere “cumulati”13, talché già di per sé deve essere escluso il principale profilo di disparità di trattamento articolato nelle ordinanze di rimessione. La non coincidenza dei due termini trova giustificazione proprio in ragione della specificità della procedura liquidatoria degli indennizzi per equa riparazione della non ragionevole durata del processo rispetto alle procedure di pagamento degli altri debiti della P.A.
La procedura di pagamento prevista dalla legge Pinto, come modificata dal legislatore del 2015, rappresenta, dunque, un ragionevole bilanciamento tra l’interesse del creditore a realizzare il suo diritto e quello dell’amministrazione di gestire, in modo organico ed ordinato, il rilevantissimo numero di procedure relative ai crediti fondati su decreti ottenuti ex l. 89/2001. Obiettivo, questo, in vista del quale rileva anche l’effetto deflattivo riconducibile agli adempimenti preventivi sub comma 1, che possono consentire all’amministrazione di pagare quanto dovuto ex iudicato entro, ed eventualmente anche prima, dello scadere del termine dei sei mesi di cui al comma 5 dell’art. 5-sexies, evitando così successive procedure esecutive.
Allo stesso modo va escluso l’asserito contrasto con l’art. 24 Cost.: alla luce, infatti, della consolidata giurisprudenza della Corte, la garanzia costituzionale della tutela giurisdizionale non implica necessariamente «una relazione di immediatezza tra il sorgere del diritto (o dell’interesse legittimo) e tale tutela, essendo consentito al legislatore di imporre l’adempimento di oneri che, condizionando la proponibilità dell’azione14, ne comportino il differimento, purché gli stessi siano giustificati da esigenze di ordine generale o da superiori finalità di giustizia»15.
Più nel dettaglio, secondo la Consulta, la normativa denunciata avrebbe introdotto solo l’onere, per i creditori di collaborare con l’amministrazione. Tale contributo consisterebbe nella dichiarazione – da presentarsi congiuntamente o pedissequamente alla notifica del decreto che costituisce il titolo – completa delle informazioni relative alla situazione creditoria, al fine di ottenere il pagamento entro i sei mesi successivi, trascorsi inutilmente i quali essi potranno agire in sede esecutiva.
Per ultimo, la Corte ha puntualizzato che, non essendovi alcuna lesione arrecata alla pienezza ed effettività della tutela dei crediti de quibus, è da ritenere superato anche il residuo dubbio di violazione dei parametri costituzionali ed europei per tale profilo evocati in tema di giusto processo.
3. La Violazione della ragionevole durata del processo ed equa riparazione ex lege Pinto
Con la L. n. 89/2001, nota anche come legge Pinto16, il legislatore ha introdotto nel nostro ordinamento un sistema finalizzato a ristorare i pregiudizi di chi ha subito danni derivanti dalla lunga durata del processo, in violazione dell’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo.
Tale strumento non risulta utile tanto per i danni patrimoniali, la cui dimostrabilità è subordinata ad un onere probatorio particolarmente rigoroso17, quanto per quelli non patrimoniali. Essi, infatti, sono più facilmente dimostrabili giacché il processo, prolungandosi oltre il ragionevole, provoca un danno che, se non in re ipsa18, è comunque “conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria”. Tale pregiudizio, dunque, non va provato dal danneggiato, pur essendo suscettibile di prova contraria, per quanto difficoltosa19. Il resistente, in particolare, è soggetto all’onere di dimostrare le circostanze che, in concreto, escludono tale danno, venendosi, in difetto, a realizzare una sorta di automatismo risarcitorio20.
La legge Pinto, nel corso di questi ultimi anni, ha subito notevoli modifiche21 volte a snellire il procedimento, ma che, per “un’eterogenesi dei fini”, lo hanno reso più oneroso per il ricorrente, aggravando taluni requisiti di forma, nonché prescrivendo che la riparazione possa essere chiesta, entro il termine di decadenza semestrale.
4. Diritto d’azione e giurisdizione condizionata
Sono a tutti ben chiare le finalità che, in questi anni, hanno guidato il legislatore nelle modifiche apportate alla legge 24 marzo 2001, n. 89: arginare le centinaia di condanne che, stavano sommergendo il Ministero della Giustizia ed il Ministero dell’Economia e delle Finanze, rispettivamente, per l’eccessiva durata delle controversie pendenti dinanzi all’Autorità Giudiziaria Ordinaria o al Giudice Amministrativo, così come a decine di migliaia le analoghe richieste alla CEDU (per violazione del già ricordato art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo) avevano ingolfato gli archivi di Bruxelles.
Le novelle – alcune delle quali già passate sotto la lente della Corte Costituzionale che, fortunatamente, ha eliminato alcune fantasiose disposizioni legislative – si sono spinte anche ad inserire ulteriori periodi di grazia a favore dell’Amministrazione condannata all’esborso di somme a titolo di indennizzo per eccessiva durata dei processi. Nello specifico, l’art. 5-sexies, inserito dalla Legge di stabilità 2016, ha subordinato il pagamento alla presentazione di una dichiarazione attestante una serie di circostanze, ossia, come precisa la norma, “la mancata riscossione di somme per il medesimo titolo, l’esercizio di azioni giudiziarie per lo stesso credito, l’ammontare degli importi che l’amministrazione è ancora tenuta a corrispondere, la modalità di riscossione”.
L’esecuzione di una pronunzia giudiziale inoppugnabile è stata condizionata, quindi, al rispetto di una serie di oneri a carico del creditore, chiamato a dichiarare dati perfettamente recepibili dalla sentenza di condanna e, addirittura, a rinnovare tale dichiarazione “a richiesta della pubblica amministrazione” trascorsi sei mesi dalla sua produzione22. In altre parole, la P.A. debitrice (a seguito di una pronuncia di condanna) ha il diritto di non soddisfare il credito se non riceve detta dichiarazione. Inoltre la stessa P.A., ove ritardi ad ottemperare e lasci trascorrere più di sei mesi, ha il diritto di onerare il creditore di doverla nuovamente riprodurre. Ma vi è di più: prima dello spirare dei sei mesi, il creditore non può “procedere all’esecuzione forzata, alla notifica dell’atto di precetto, né proporre ricorso per l’ottemperanza del provvedimento”. L’ordinario termine dilatorio di 120 giorni, previsto dall’art. 14, 1° comma, del D.L. n. 669/1996 (convertito dalla Legge 28 febbraio 1997, n. 30 e modificato dall’art. 147 della Legge n. 388/2000), è qui sostituito dal termine di sei mesi, condizionato a sua volta dall’invio della dichiarazione e della documentazione richiesta.
Tale complesso procedimento strutturato ad hoc – quale condizione di procedibilità per ottenere il pagamento delle somme liquidate ex lege Pinto – è apparso sin dalla sua emanazione potenzialmente in conflitto con il diritto di agire in giudizio, diritto garantito dall’art. 24 della nostra Carta fondamentale.
Va peraltro evidenziato come la Consulta – chiamata a esprimersi riguardo ad altre ipotesi di giurisdizione condizionata – abbia diversamente affermato che l’esercizio del diritto di azione può subire dilazioni temporali23 al fine di salvaguardare interessi generali24, ma solo a patto che tale differimento avvenga secondo modalità che «rendono intrinsecamente ragionevole il limite all’immediatezza della tutela giurisdizionale»25.
Nel caso in esame, il condizionamento rappresentato dall’invio della dichiarazione dei crediti vantati nei confronti all’amministrazione debitrice, pur potendo rallentare l’accesso alla tutela giurisdizionale, non è tale da precluderlo. Nell’ottica di deflazionare l’accesso alla tutela giurisdizionale, tale condizione sarebbe, dunque, costituzionalmente legittima, proprio alla luce del fatto che la garanzia prevista all’art. 24 della nostra Carta fondamentale non comporterebbe l’assoluta immediatezza dell’esperibilità del diritto di azione.
Le conclusioni cui giunge la Consulta meritano tuttavia, a mio avviso, alcune riflessioni critiche.
L’imposizione, in astratto, di oneri preliminari che differiscono l’esercizio del diritto di azione è legittima quando il loro esperimento ha finalità endogiurisdizionali ed è funzionale alla deflazione dei carichi giudiziari. Occorre nondimeno chiedersi se, l’imposizione di questo aggravio procedimentale26 – ingiustificatamente favorevole all’Amministrazione debitrice, rispetto alla generalità degli altri creditori della P.A. – possa, in concreto, incidere sulla scelta di esercitare il proprio diritto di azione. E’ indubbio, infatti, che l’art. 5-sexies della legge Pinto introduca norme profondamente inopportune ed inique, atteso che impone al creditore (all’esito di un processo di cognizione) di rendere autodichiarazioni e di produrre documentazione27 già note e nella disponibilità della amministrazione debitrice. Si tratta di formalismi non giustificati da effettive e concrete garanzie difensive. È altrettanto evidente che la principale conseguenza applicativa di questo meccanismo è l’aumento di contenzioso, questa volta in ordine alla regolare e completa trasmissione delle dichiarazioni e della documentazione richiesta. Ancora, bisogna rilevare come il deposito dell’intero fascicolo in copia conforme della causa comporti altresì per il ricorrente un cospicuo esborso economico.
Se, dunque, l’obiettivo della legge Pinto doveva essere quello di dotare l’ordinamento interno di una procedura riparatoria in grado di riprodurre sul piano interno le condizioni assicurate sul piano internazionale dalla CEDU, va rilevato come tali oneri non siano imposti nel procedimento che si svolge innanzi alla Corte di Strasburgo. La loro introduzione costituisce, così, un’autentica vessazione, volta a scoraggiare il cittadino ad agire in via giurisdizionale per ottenere il risarcimento per i danni subiti a causa dell’irragionevole durata di un processo: in definitiva, sembra potersi concludere che l’imposizione di questi adempimenti si risolva senz’altro in un ingiustificato ostacolo all’esercizio del diritto d’azione, e ciò in palese conflitto con l’art. 24 della Cost. e l’art. 34 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo.
Il testo integrale della nota è pubblicato su Studium Iuris, fasc. 2, 2019, pagg 157-161.
Autore: Francesco Tedioli
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