Processo civile telematico: l’errore fatale in fase di deposito dell’atto processuale e rimessione in termini

Warning, error, fatal error: stiamo parlando di processo civile telematico. E se questi errori venissero usati in modo strumentale e malevolo da parte del legale depositante?

1. Il caso

Un istituto di credito assoggettava a espropriazione forzata diversi terreni e fabbricati rurali di proprietà del proprio debitore. Gli immobili venivano messi in vendita, aggiudicati e trasferiti unitamente ad alcuni

L’Unità Sanitaria Locale di Cagliari proponeva opposizione ad un decreto ingiuntivo evidenziando come la società ingiungente non avesse sufficientemente precisato su quali prestazioni si basasse il proprio credito. Contestava, inoltre, la rilevanza probatoria delle fatture poste a fondamento del ricorso ed eccepiva vari inadempimenti dell’opposta.

Il Tribunale di Cagliari revocava il decreto ingiuntivo opposto, compensando le spese del giudizio. Contro tale sentenza, proponeva appello la società cessionaria del credito, precedentemente vantato dall’ingiungente.

Si costituiva l’appellata (divenuta, nel frattempo, Azienda per la Tutela della Salute), eccependo preliminarmente l’improcedibilità del gravame per la tardiva iscrizione a ruolo.

L’appellante non era, infatti, riuscita a depositare telematicamente l’atto di citazione, per un errore del sistema e, conseguentemente, aveva presentato un’istanza affinché fosse considerato valido il secondo tardivo deposito, “in considerazione dell’errore fatale non attribuibile” alla medesima.

La Corte d’Appello di Cagliari – con sentenza 14 giugno 2019 n. 520 – accoglieva la predetta istanza, osservando che, sebbene il sistema avesse regolarmente ricevuto la busta contenente l’atto di appello, quest’ultimo mai era giunto alla Cancelleria, proprio a causa dell’errore fatale. Invitava, inoltre, l’appellante a produrre la prova della notifica dell’atto di citazione, ai fini della verifica della tempestività dell’iscrizione a ruolo.

Verificato questo adempimento, l’appello era dichiarato improcedibile, in quanto la (prima) costituzione dell’appellante (inviata con successo, ma non ricevuta dalla Cancelleria) risultava essere tardiva. In altre parole, la Corte evidenzia come l’atto di citazione sia stato inviato al sistema per l’iscrizione a ruolo oltre il termine di dieci giorni dalla notificazione al difensore della USL.

Il Collegio ricorda che il primo comma dell’art. 347 c.p.c. – nello stabilire che la costituzione in appello avviene secondo le forme ed i termini per i procedimenti davanti al tribunale – rende applicabili al giudizio d’appello le previsioni di cui agli artt. 165 e 166 c.p.c., ma non quella di cui all’art. 171 c.p.c. Tale norma, concernente la ritardata costituzione delle parti, risulta, infatti, incompatibile con la previsione di improcedibilità dell’appello, ove l’appellante non si costituisca nei termini, di cui all’art. 348 c.p.c. Ne consegue che il giudizio di gravame deve essere dichiarato improcedibile in tutti i casi di ritardata o mancata costituzione dell’appellante, a nulla rilevando che l’appellato si sia costituito nel termine assegnatogli1 .

2. La costituzione delle parti nel giudizio di appello

Come ricordato dalla Corte d’appello, il primo comma dell’art. 3472 c.p.c. richiama integralmente, per la costituzione delle parti nel giudizio d’appello, le forme e i termini previsti per il processo dinnanzi al tribunale.

L’appellante, dunque, si costituisce a norma dell’art. 165 c.p.c., depositando nella cancelleria del giudice di secondo grado, il proprio fascicolo, che deve contenere l’atto d’appello notificato, la nota di iscrizione a ruolo, la procura alle liti, gli eventuali documenti offerti in comunicazione, la copia della sentenza impugnata ed il fascicolo di parte di primo grado3. La costituzione dell’appellante deve avvenire entro dieci giorni dalla notificazione dell’atto di appello, oppure, in caso di abbreviazione dei termini ex art. 163 bis, entro cinque giorni.

rivista giuridica sarda 3 2021

La mancata o tardiva costituzione dell’appellante produce l’improcedibilità dell’appello4, che può essere dichiarata anche d’ufficio e comporta il passaggio in giudicato della sentenza impugnata5. Non vi è, invece la possibilità che la tempestiva costituzione dell’appellato abbia effetti sananti, né può ammettersi la riassunzione della causa non iscritta a ruolo, non applicandosi, per incompatibilità, il disposto di cui all’art. 1716.

3. Il deposito telematico degli atti processuali

I titoli possono essere espropriati secondo le modalità previste per la procedura del pignoramento mobiliare diretto, nei confronti del debitore. Tale principio è stato chiarito da alcune circolari di Agea7 quale gestore del Registro, che, occupandosi degli atti di disposizione dei titoli Pac, si conforma a quanto già in passato ritenuto dalla giurisprudenza di merito. Non è ammissibile, quindi, ricorrere alla procedura del pignoramento presso terzi8, in quanto Agea non è custode o detentrice dei titoli, che sono intestati e rimangono nella disponibilità degli agricoltori. Agea, peraltro, neppure è debitrice degli agricoltori beneficiari delle provvidenze economiche.

4. La soluzione adottata

In applicazione di questi principi, la Corte ha accolto l’istanza di rimessione in termini formulata dall’appellante, salvo poi dichiarare l’improcedibilità dell’appello, perché il primo deposito, respinto dal sistema per “errore fatale”, se fosse stato valido sarebbe stato, comunque, da considerare “tardivo”.

Nondimeno, la sentenza in rassegna offre spunti interessanti per riflettere su alcuni aspetti del nostro vigente processo civile telematico, di cui al d.l. 179/20129 e di cui alle “Regole Tecniche” (D.M. 21/2/2011, n. 44), meglio note, fra gli “addetti ai lavori”, con la sigla “PCT”. Per il suo funzionamento, il PCT richiede la generazione della c.d. “busta telematica” ed il successivo invio della stessa mediante posta elettronica certificata dall’indirizzo PEC mittente del professionista, risultante dal Registro Generale degli Indirizzi Elettronici (ReGIndE, gestito dal Ministero della Giustizia), all’indirizzo PEC destinatario della cancelleria del tribunale in cui gli atti devono essere depositati10.Per la generazione della busta telematica il sistema richiede l’utilizzo di una combinazione di appositi software “imbustatori” (open source e/o closed source, a pagamento) e dispositivi che implementano un sistema crittografico a chiavi asimmetriche. Trattasi di una tipologia di crittografia, nella quale ad ogni soggetto coinvolto nella comunicazione è associata una coppia di chiavi: la chiave pubblica, che deve essere distribuita, e quella privata, che deve necessariamente rimanere personale e segreta.

La crittografia asimmetrica, chiamata anche crittografia “a coppia di chiavi” – alla base della firma digitale italiana – si basa sul fatto che, se con una delle due chiavi si cifra un file, lo stesso sarà decifrabile solo con l’altra chiave. Tale meccanismo fa sì che lo scambio di dati nel Processo Civile Telematico possa avvenire in modo sicuro e cifrato e che sia possibile garantire il requisito del “non ripudio” della busta da parte del professionista che l’ha generata.

Ad ogni chiave pubblica utilizzata nel sistema è, infatti, associato un certificato rilasciato da una terza parte fidata (certificatore), onde consentire di verificare l’autenticità delle firme. A tal fine il sistema prevede la sottoscrizione degli atti giudiziari generati dal professionista con la chiave privata del medesimo e l’inserimento degli stessi in una busta che viene poi criptata con la chiave pubblica della cancelleria, che sarà, poi, l’unico soggetto abilitato a decifrare, ovvero, ad “aprire” la busta, mediante la propria chiave privata.

Quanto all’invio della “busta telematica” essa può essere trasmessa manualmente come allegato di un apposito messaggio PEC, ovvero, come di sovente avviene, mediante lo stesso software PCT “commerciale”, che implementa sia le funzioni di generatore della busta che di client per l’invio del relativo messaggio PEC al gestore del servizio.

Anche il suddetto protocollo di trasmissione della busta, noto come “posta elettronica certificata”, si avvale di un sistema basato sulla crittografia asimmetrica e sulla firma digitale. Il mittente sottopone il messaggio PEC al proprio “gestore”, il quale si occupa dell’autenticazione del mittente e della verifica della correttezza formale del messaggio PEC. In caso positivo, restituisce al mittente una ricevuta di accettazione che testimonia la presa in carico per l’invio del messaggio. Tale ricevuta viene firmata digitalmente dal gestore e garantisce l’integrità dell’intero messaggio e relativi allegati (nel nostro caso la busta telematica precedentemente generata).

Il gestore del mittente trasmette il messaggio al “gestore” del destinatario, inserendolo in una busta di trasporto11 firmata con la propria chiave privata per permettere al gestore del destinatario di verificarne l’inalterabilità durante il trasporto.

Il gestore del destinatario, ricevuto il messaggio PEC, consegnerà al gestore del mittente una ricevuta di presa in carico che attesta il passaggio di consegne tra i due server di posta. Quest’ultimo soggetto verifica la correttezza e l’integrità del messaggio. Solo qualora il messaggio superi i controlli delle firme, mediante il meccanismo in precedenza illustrato, esso viene consegnato nella casella di posta del destinatario, che può, quindi, leggerne il contenuto.

Al mittente viene, infine, recapitata una ricevuta di avvenuta consegna (RAC)12, che attesta che il messaggio ivi contenuto è pervenuto nella casella del destinatario, ovvero, nella c.d. “sfera di disponibilità” dello stesso.

5. Le criticità del processo civile telematico

Nel processo civile telematico ben quattro sono le ricevute che vengono generate dal sistema, per ogni singolo deposito.

A fronte del messaggio PEC contenente la busta telematica di deposito, cui segue la ricevuta di accettazione del gestore mittente e la ricevuta di consegna del gestore destinatario, pervengono all’avvocato altri due messaggi PEC generati dalla cancelleria: il messaggio n. 3 di “esito controlli automatici” e, infine, il messaggio n. 4 di accettazione o rigetto del deposito (“accettazione deposito”).

Il gestore dei servizi telematici scarica il messaggio dal gestore della posta elettronica certificata del Ministero della giustizia ed effettua le verifiche formali sul messaggio, (verificando ad esempio la riferibilità degli atti ivi contenuti al professionista depositante, decrittandoli con la chiave pubblica dello stesso).

Il gestore dei servizi telematici, nel caso in cui il mittente sia un avvocato, effettua l’operazione di certificazione, ossia recupera lo status del difensore da ReGIndE; nel caso in cui lo status non sia “attivo”, viene segnalato alla cancelleria.

Sul punto, va ricordato che l’art. 1413, del Provvedimento 16 aprile 201414 del responsabile per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia prevede che l’avvocato depositante debba prestare particolare attenzione al terzo messaggio PEC, ovvero, ai “controlli automatici” “formali” che il sistema effettua sulla busta telematica. In particolare, il co. 7, elenca le possibili anomalie15 che possono pervenire all’esito dell’elaborazione della busta telematica:

a) WARN (WARNING): anomalia non bloccante; si tratta in sostanza di segnalazioni, tipicamente di carattere giuridico (ad esempio manca la procura alle liti allegata all’atto introduttivo)16;

b) ERROR: anomalia bloccante, ma lasciata alla determinazione dell’ufficio ricevente, che può decidere di intervenire forzando l’accettazione o rifiutando il deposito (esempio: certificato di firma non valido o mittente non firmatario dell’atto)17;

c) FATAL: eccezione non gestita o non gestibile (esempio: impossibile decifrare la busta depositata o elementi della busta mancanti ma fondamentali per l’elaborazione)18.

Completati i controlli formali, il gestore dei servizi telematici, all’esito dell’intervento dell’ufficio, invia al depositante il quarto ed ultimo messaggio di posta elettronica certificata, contenente l’esito dell’intervento di accettazione o il “rifiuto degli atti” operato dalla cancelleria.

In presenza di “errore fatale” “non gestibile”, ovvero, di rigetto della busta da parte della cancelleria, l’avvocato depositante dovrà provvedere ad effettuare un nuovo deposito.

Sennonché, può accadere che il terzo e il quarto messaggio di posta elettronica certificata arrivino qualche giorno dopo l’invio della busta telematica, ovvero, in data posteriore alla scadenza di eventuali termini perentori. In siffatte evenienze, il depositante risulterà senz’altro “decaduto”, ma – per pacifica giurisprudenza (infra), da cui la sentenza in rassegna non ha ritenuto di discostarsi – lo stesso depositante potrà ricorrere all’istituto della “remissione in termini” di cui all’art. 153, co. 2, c.p.c.

A ben vedere, però, in subiecta materia, si è ritenuto di sollevare tout court il depositante dal dover dimostrare la propria assenza di colpa, mediante due disposizioni “ad hoc”. Vengono, infatti, in questi casi “in soccorso” del depositante, l’art. 13, co. 2, del d.m. 21 febbraio 2011, n. 4419, il quale prevede che gli atti e i documenti informatici “si intendono ricevuti dal dominio giustizia nel momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del Ministero della giustizia.”, nonché l’art. 16 bis co. 7, del d.l. 18 ottobre2012, n. 17920, secondo cui: “il deposito con modalità telematiche si ha per avvenuto al momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del ministero della giustizia. Il deposito è tempestivamente eseguito quando la ricevuta di avvenuta consegna è generata entro la fine del giorno di scadenza”.

In altre parole, al depositante sarà sufficiente produrre la ricevuta di consegna della prima PEC, onde ottenere la rimessione in termini, per qualsiasi ipotesi di “errore fatale”, generato dal sistema. Al riguardo, la giurisprudenza ha solo preso atto delle norme testé richiamate, le quali non lasciano certo spazio a diverse interpretazioni, precisando che il momento nel quale il deposito telematico dell’atto si è perfezionato coincide con quello indicato nella ricevuta di avvenuta consegna della PEC generata dal Gestore PEC del Ministero di Giustizia. È’ inoltre, del tutto indifferente che a causa del carico di lavoro gravante sulla cancelleria o per altre ragioni, la stessa lavori la busta dopo lo scadere del termine ed assegni, quindi, all’iscrizione a ruolo un numero ed una data successive21.

La ratio di tale radicale impostazione deve ricercarsi, a nostro avviso, nella preoccupazione del legislatore, di stemperare gli effetti derivanti dall’elevata complessità del sistema adottato per il PCT – che qui abbiamo solo sommariamente descritto. Ci si riferisce, in particolare, al fatto che il sistema non rende agevole distinguere se il mancato o tardivo deposito sia imputabile a fatto e colpa del depositante, ovvero, a problemi tecnici del programma imbustatore, del programma di firma, del gestore dei servizi (che molto spesso si rivela essere “in manutenzione”) o dei protocolli di trasmissione, che possono a loro volta dimostrarsi fallaci; o, banalmente, del sovraccarico delle cancellerie.

Occorre, tuttavia, domandarsi se quanto sopra non possa prestare il fianco ad un uso strumentale e malevolo da parte del legale depositante. Ipotizzando che il nostro avvocato si trovi, ad esempio, in forte ritardo con la redazione di un atto processuale, scadente dopo poche ore, egli potrebbe maliziosamente generare una busta telematica del tutto irricevibile22, depositarla nei termini, ricevendo un “errore fatale” con la terza pec, salvo poi, in tutta calma, redigere l’atto e chiedere la rimessione in termini, allegando la prima ricevuta di consegna tempestivamente pervenuta.

A quanto ci risulta, infatti, nessuna verifica tecnica, ovvero, nessuna prova circa “la bontà” della busta trasmessa è richiesta a colui che formula una tale istanza di rimessione in termini23.

Invero, come abbiamo in precedenza osservato, la “busta telematica” allegata al primo messaggio PEC è costituita da un file24 crittografato con la chiave pubblica del tribunale destinatario e, come tale, può essere decrittato solo mediante la chiave privata del tribunale stesso (chiave che, ovviamente, non può essere mai distribuita e deve rimanere nel possesso esclusivo del destinatario del messaggio25).

Tale meccanismo non permette all’avvocato istante di dimostrare quale sia il contenuto effettivo del messaggio pec respinto, né di fornire prova che il medesimo, al momento dell’invio, è completo di tutti gli elementi essenziali per essere “accettato” dal sistema (e che, quindi, è stato respinto per causa lui non imputabile).

Allo stesso modo, non pare ipotizzabile gravare il giudice dal condurre verifiche tecniche – che non gli competono26 – sulla regolarità della busta e/o sulla riferibilità o meno dell’errore fatale all’istante.

Nulla questio, infine, verrebbe da pensare, nell’ipotesi di “esito positivo” del deposito, ma con accettazione posteriore alla scadenza dei termini perentori.

Nondimeno, occorre rilevare che, anche in tali casi, un problema o, meglio, un “equivoco”, astrattamente fonte di non poche contestazioni fra le parti, potrebbe generarsi. In tali casi, infatti, la cancelleria telematica non provvede (né potrebbe, a quanto ci risulta) ad effettuare alcuna retrodatazione dell’“evento deposito” alla data del ricevimento, da parte dell’avvocato depositante, della ricevuta di consegna della pec contenente la busta telematica depositata nei termini. Come data di deposito viene invece annotata quella successiva di lavorazione del contenuto busta da parte della cancelleria; lavorazione che, come detto, può avvenire in data ben posteriore alla scadenza dei termini perentori.

Orbene, a fronte di un’eventuale eccezione di decadenza per “tardivo deposito” proveniente da parte avversa, l’onere di fornire la prova di aver tempestivamente depositato gli atti entro i termini perentori sarà addossato al depositante, e non alla cancelleria che ha tardivamente lavorato la busta.

Il depositante, dunque, anche in caso di esito positivo del deposito, mai dovrà disfarsi della ricevuta di consegna della prima PEC (magari, per liberare spazio nella casella…).

È evidente, quindi, che l’attuale processo civile telematico, così com’è stato concepito ed implementato by design, da un lato presti il fianco a contestazioni meramente strumentali e formali, e dall’altro si riveli talmente complesso da vanificare il principio fondamentale del rispetto dei termini perentori, imposto alle parti. Quanto al secondo aspetto, ovviamente, fatta salva la possibilità di essere “rimessi in termini”, a fronte della prova “rigorosa” dell’assenza di colpa in capo a colui che è incorso nella presunta decadenza.

L’errore di fondo, a parere degli scriventi, risiede nell’aver imposto l’uso della posta elettronica certificata per il funzionamento del processo telematico.

Per fare un paragone con il processo civile che conoscevamo anteriormente all’introduzione del PCT, sarebbe come pretendere che l’avvocato, per depositare i propri atti, dovesse ogni volta spedire al Tribunale un plico raccomandato a/r, invece di recarsi personalmente in Cancelleria27. Poiché è evidente l’assurdità della scelta, ben si sarebbero potuti implementare altri sistemi.

Viene da pensare al semplice “upload” di atti e documenti firmati digitalmente, direttamente sul server ministeriale, previa autenticazione (con CNS o SPID) dell’avvocato depositante e, occorrendo, marcatura temporale; il tutto con strumenti e tecnologie senz’altro già esistenti (vedasi al riguardo quanto implementato per il processo tributario telematico).

Per spingersi oltre, in un’ottica di legal design, si potrebbe ipotizzare la redazione degli atti direttamente sulla piattaforma del Ministero di giustizia da parte dell’avvocato e la notificazione telematica degli stessi, con contestuale iscrizione a ruolo, il tutto sempre tramite piattaforma. Un tale sistema permetterebbe, infatti, di evitare una serie di errori formali e sostanziali; ad esempio, il mancato rispetto dei termini a comparire, vizi della vocatio o dell’editio actionis (imponendo come “bloccanti” alcuni passaggi). fondamentali afferenti agli elementi essenziali della domanda).


Il testo del saggio è pubblicato sulla rivista Rivista giuridica Sarda, 3/2021, pagine 119-130.

Autori: Francesco Tedioli e Guglielmo Marchelli

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