Se la domanda riconvenzionale, in materia di contratti agrari, debba sempre essere preceduta dal tentativo di conciliazione previsto dall’art. 46 della legge n. 203 del 1982

Controversie agrarie e tentativo di conciliazione


L’art. 46, comma I, legge 203/1982 (l. sui patti agrari) prevede che chi intende proporre in giudizio una domanda relativa ad una “controversia in materia di contratti agrari” ha l’onere, prima di adire l’autorità giudiziaria, di attivare un procedimento conciliativo (regolato dai commi II-V) presso l’Ispettorato provinciale dell’agricoltura (ora Settore agricoltura della Provincia) competente per territorio. L’assolvimento di tale onere viene qualificato dalla giurisprudenza come condizione di procedibilità 1, ammissibilità2 o proponibilità3 della domanda giudiziale e si sostanzia nel mero inoltro all’Ispettorato della richiesta di attivazione del procedimento4.

La legge precisa, inoltre, che, nel caso in cui il tentativo di conciliazione non si definisca entro 60 giorni dalla comunicazione, ciascuna delle parti è libera di adire l’autorità giudiziaria competente. Il mancato rispetto del disposto dell’art. 46, comma I, l. 203/1982 è rilevabile d’ufficio ed è insuscettibile di sanatoria5. Solo alcune pronunce di merito, di segno contrario, prevedono che la Corte, in applicazione dell’art. 412 bis c.p.c., sospenda il giudizio assegnando alle parti un termine perentorio di 60 giorni per esperire la procedura stragiudiziale6.

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Secondo la miglior dottrina, la disposizione in commento assolve una duplice funzione: evitare il contenzioso e cercare di risolvere il conflitto in sede amministrativa7 dinanzi ad un pubblico ufficio, favorendo l’accordo transattivo prima che l’azione sia instaurata avanti il Giudice specializzato8. In altre parole, il tentativo di conciliazione rappresenta un filtro riduttivo9 in una materia (il diritto agrario) che regola preponderanti interessi collettivi, quali la tutela dell’impresa familiare o la conservazione dell’integrità del fondo rustico10. Non mancano, però, voci critiche che qualificano la conciliazione come una “mera formalità processuale”, inutile ed assolutamente inadeguata a rendere meno pesante il contenzioso giudiziale11.

Il tenore letterale della norma non sembra lasciare alcun dubbio in ordine alla necessità di esperire il tentativo di conciliazione ogniqualvolta venga proposta una domanda giudiziale, indipendentemente dal soggetto che la formula, dalla sua posizione processuale12 e, soprattutto, dalla fase in cui la domanda viene avanzata. Nel caso di contestuale proposizione di più domande, la sussistenza della condizione va accertata in relazione a ciascuna di esse e l’improcedibilità di una non può incidere sull’accertata procedibilità delle altre13. L’onere previsto dall’art. 46, l. 203/82 deve, pertanto, essere assolto anche nel caso di domanda riconvenzionale14, di intervento nel giudizio, di opposizione di terzo avverso una sentenza pronunciata dalla Sezione Specializzata Agraria15 e di opposizione a decreto ingiuntivo16.

Il rigore e la perentorietà dell’affermazione sono, però, temperate dalla dottrina e dalla giurisprudenza che hanno individuato una serie di – apparenti – deroghe a tale principio. Una prima eccezione si ravvisa quando, pur venendo formulata una vera e propria domanda riconvenzionale, il suo oggetto è, comunque appartenuto alla fase conciliativa stragiudiziale ancorché questa si sia svolta su istanza della parte ricorrente17. Il convenuto non è onerato, quindi, dall’effettuare una formale ed autonoma comunicazione a controparte e all’I.P.A. se la questione sia stata concretamente esaminata e trattata nel contraddittorio di tutte le parti interessate alla controversia e ciò risulti dal verbale redatto in quella sede. D’altro canto, secondo una giurisprudenza di merito18, il ricorrente ha soltanto una facoltà e non un obbligo di discutere stragiudizialmente la riconvenzionale, talché è possibile che in sede di tentativo di conciliazione rifiuti il contraddittorio.

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Vi è, poi, il caso delle domande riconvenzionali che sono solo formalmente o apparentemente tali, perché il resistente si limita a spiegare mere difese (volte al semplice rigetto della domanda avversaria), eccezioni in senso tecnico19 o eccezioni riconvenzionali20. Poiché il tentativo di conciliazione deve precedere soltanto le domande riconvenzionali che determinino un ampliamento dell’ambito oggettivo della controversia rispetto al contenuto della domanda principale21, la parte convenuta, in relazione ad esse, non deve, pertanto, esperire il tentativo di conciliazione. In tutte queste ipotesi, infatti, il resistente fonda la propria pretesa sui medesimi fatti dedotti in giudizio dalla controparte e non supera i limiti del thema decidendum22. Lo stesso principio di diritto può essere applicato anche all’intervento di un terzo nel processo agrario, talché non è necessario il tentativo di conciliazione nel caso di intervento adesivo dipendente o ad adiuvandum (art. 105, comma II, c.p.c.), mentre lo è nell’ipotesi di intervento volontario principale o litisconsortile quando viene prospettata una domanda autonoma nei confronti di una delle parti23. Del pari, è escluso il tentativo di conciliazione ove, a fronte della domanda diretta all’accertamento che il convenuto detiene il fondo senza titolo, sia stata eccepita l’esistenza di un contratto di affitto24. Il tentativo di conciliazione stragiudiziale è, inoltre, incompatibile con la richiesta di provvedimenti cautelari ante causam25, con l’opposizione all’esecuzione26 o al rilascio degli immobili[/efn_note]Cass. 8379/2005[/efn_note].


Il testo integrale della questione è pubblicato su Studium Iuris, 2008, fasc. 9, pagg. 973-974.

Autore: Francesco Tedioli

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