Questioni in tema di diritto di ritenzione ai sensi dell’art. 15 L. 11 febbraio 1971, n. 11

TRIBUNALE DI MANTOVA – 20 giugno 1972

Legittimato passivo al pagamento delle migliorie, per le quali si eccepisce il diritto di ritenzione è il venditore del fondo rustico, intervenuto nel processo.

TRIBUNALE DI MANTOVA – 13 settembre 1971 (ord.)

Ai sensi dell’art. 26 l. 11 febbraio 1971 n. 11 sono devolute alla competenza della Sezione specializzata agraria tutte le controversie relative all’attuazione della legge medesima.
La prova delle migliorie, per le quali si vanta il diritto di ritenzione, non può essere data in sede di opposizione all’esecuzione per rilascio.

Affitto fondi rustici: miglioramento del fondo

L’Autore, considerato che la legge 11 febbraio, n. 11 tutela in modo preminente l’affittuario nei confronti del proprietario, aderisce alla teoria che definisce la ritenzione come un’eccezione personale dotata di efficacia in rem e, quindi opponibile ai terzi acquirenti della cosa. Respinge, quindi, la possibilità di eccepire la ritenzione anche in sede esecutiva, una volta che non si sia esperita tale difesa nel giudizio per il rilascio poiché la ratio della norma dell’art. 615 codice di procedura civile è quella di concedere una tutela fondata sui motivi che non si potevano far valere precedentemente o in altra sede e tali, comunque, da contrastare la legittimità del titolo esecutivo

1) La fattispecie è semplice. Presupposto della controversia è la vendita di un fondo rustico a coltivatore diretto che acquista con i benefici legali della «piccola proprietà contadina». Al nuovo proprietario, che agisce per il rilascio del fondo denunciando l’effetto risolutivo del contratto di locazione previsto dall’art. 3 l. 28 marzo 1957 n. 244, l’affittuario eccepisce il suo diritto alla ritenzione per pretese migliorie effettuate sul fondo stesso, diritto fondato sull’art. 15 l. 11 febbraio 1971 n. 11. Trattasi di migliorie antecedenti l’entrata in vigore della legge e per le quali non sono invocabili, dunque, gli artt. 12 e 14 che assicurano diritti ancor più consistenti all’affittuario.

La prima questione è se il diritto di ritenzione ammesso dalla legge speciale sia opponibile ergaomnes o soltanto al proprietario originario del fondo.

Nel silenzio della norma, occorre riportarsi alla natura del diritto di ritenzione. Le due teorie tradizionali – l’una che identifica la ritenzione con un diritto reale, l’altra, che per contrapposto la definisce diritto personale – hanno ciascuna pregi e difetti, ma entrambe alla fine risultano insoddisfacenti. Gli assertori della realità della ritenzione sembrano nel vero quando affermano che essa è opponibile a qualsiasi terzo che avanzi pretese sulla cosa ritenuta e che quindi il diritto è esperibile erga omnes, senza di che la ritenzione risulterebbe priva di ogni efficacia pratica; ma non hanno argomenti da opporre alla obiezione che il ritentore non può disporre della cosa trattenuta, non può agire esecutivamente per realizzarne il valore e soddisfare il proprio credito, né, tantomeno, è titolare del diritto di sequela.

A favore della opposta teoria è l’affermazione che la ritenzione, quale forma di autotutela, più che un diritto, è un’eccezione, la quale necessariamente non può avere che natura personale; ma la teoria stessa perde di credibilità quando, sulla base di tale assunto, dichiara che la retentionon è esperibile ergaomnes,ma soltanto nei confronti del proprietario originario, cui è fatto obbligo di rifondere le spese sostenute dal ritentore.

Si deve, quindi, accettare la tesi1 che, conciliando le due opposte teorie, definisce la ritenzione come un’eccezione personale dotata di efficacia in rem e, come tale, opponibile ai terzi acquirenti della cosa oggetto della ritenzione stessa.

Per quanto riguarda la materia in esame, sembra, che non esistano dubbi sulla esperibilità erga omnes del diritto di ritenzione, previsto dall’art. 15, a favore dell’affittuario.

A parte ogni altra considerazione, è fuori di discussione che con la l. 11 febbraio 1971 n. 11 il legislatore ha voluto tutelare in modo ampio la posizione ed i diritti dell’affittuario, coltivatore e non coltivatore diretto. Infatti tale legge, che è largamente derogatoria ed innovativa rispetto alla precedente normativa in materia agraria, è manifestazione di una nuova politica tendente a garantire in modo preminente la figura di chi lavora la terra nei confronti del proprietario. Se ciò è vero, l’art. 15, laddove parla genericamente di ritenzione, non può essere interpretato in senso restrittivo: basterebbe un trapasso di proprietà, come nel caso di specie, perchè la garanzia fosse perduta e con essa forse la probabilità di realizzare successivamente il credito per le pretese migliorie effettuate dall’affittuario, specialmente se il debitore, originario proprietario, non sia più solvibile.

Ma v’è di più. L’art. 15 della legge speciale introduce un’innovazione fondamentale alla precedente normativa del codice civile ed a tutta la giurisprudenza formatasi relativamente all’art. 1152 c.c. Il diritto di ritenzione viene ora concesso anche al detentore, quale è l’affittuario, modificando il sistema precedente che prevedeva tale garanzia, in tema di immobili, soltanto per il possessore di buona fede e per l’enfiteuta. Viene dunque modificato il principio accolto dalla giurisprudenza ormai consolidata, per la quale era agevole negare lo ius retentionis all’affittuario ed, in genere, al conduttore di fondi rustici, sulla base della considerazione che tale diritto, attuando una forma di autotutela, in deroga al principio per cui nessuno può farsi giustizia da sé, costituisce un istituto di carattere insuscettibile di applicazione analogica e limitato ai casi previsti dalla legge2.

giurisprudenza di merito

2) La seconda questione riguarda i rapporti fra i successivi proprietari, la loro diversa posizione nei riguardi del ritentore, le azioni e le difese che a ciascuno competono per la salvaguardia dei rispettivi interessi.

L’affittuario invoca il diritto di ritenzione per le pretese migliorie effettuate sul fondo nei confronti del nuovo proprietario che, da parte sua, agisce per il rilascio del fondo. E’ chiaro e rilevante il contrasto d’interessi, che non è neanche di pronta soluzione. Un primo rimedio può essere la chiamata in causa del venditore, ai sensi dell’art. 106 c.p.c., perche egli presti le “idonee garanzie” di cui fa menzione l’art. 15 della legge sui fondi rustici. Il chiamato in causa potrà assumere due diversi atteggiamenti: potrà prestare le idonee garanzie, pur contestando all’affittuario il suo credito per le migliorie, o potrà invece assumere una posizione completamente negativa sia riguardo al debito, sia, soprattutto, riguardo alle garanzie. Nella prima ipotesi, l’azione di rilascio avrà il suo corso; nella seconda ipotesi, invece, l’azione del nuovo proprietario tendente al rilascio resterà paralizzata dal prevalente diritto di ritenzione accordato all’affittuario. Rimane, a favore dell’acquirente, e nei confronti del venditore, l’azione prevista dell’art. 1489 c.c., per l’ipotesi che la cosa venduta risulti gravata da oneri o da diritti reali o personali non apparenti che ne diminuiscano il libero godimento e non siano stati dichiarati nel contratto.

E’, questa, un’ipotesi di garanzia che si ricollega all’evizione, per la finalità, che le è comune, di ristabilire il sinallagma funzionale turbato dall’esistenza sulla cosa di diritti reali o personali di godimento da parte di terzi. L’applicabilità all’ipotesi considerata trova conforto in una sentenza della Suprema Corte3 che, nel delimitare l’ambito di applicazione dell’art. 1489 c.c. nei confronti dell’evizione, afferma che tale articolo tutela, in via generale, il compratore di buona fede in ogni caso in cui il diritto acquistato non sia qualitativamente esercitabile in tutta la estensione, normalmente consentita dal suo contenuto tipico, per il concorso, a favore di terzi, di un ius in re aliena o comunque di un diritto personale di godimento della cosa, di guisa che il terzo non disconosce, come nel caso di evizione (totale o parziale) la validità dell’acquisto del diritto a favore del compratore, ma si limita a fare valere un suo concorrente diritto sulla cosa acquistata, che ne limita, per il compratore, le facoltà di godimento diversamente connaturate al diritto acquistato.

3) Altra questione è se l’eccezione di ritenzione può farsi valere nel giudizio di rilascio o in sede di esecuzione, o indifferentemente in entrambi.

L’opinione tradizionale, che si riallaccia all’art. 1152 C.C., e per la proponibilità nel solo giudizio di cognizione, nel quale si dovrebbe, di conseguenza, dare quella prova in generale dei miglioramenti apportati al fondo dall’affittuario, così come previsto dall’art. 15 della legge citata. E’ una tesi che, attraverso una rigorosa disamina dei motivi che la dottrina e la giurisprudenza hanno ritenuti idonei all’opposizione di cui all’art. 615 c.p.c., vede nella ritenzione un’eccezione non assimilabile ad a1cuno di essi.

Non merita, per contro, alcuna considerazione la opposta opinione che è per la proponibilità della eccezione nella sola sede esecutiva, in quanto non si può ragionevolmente sostenere che l’affittuario non ha in sede di cognizione alcun motive da opporre alla legittimità dei requisiti (acquirente piccolo proprietario contadino, ecc.) dell’escomiante.

Le perplessità sorgono, invece, riguardo alla possibilità di eccepire la ritenzione anche in sede esecutiva, una volta che non si sia esperita tale difesa nel giudizio per il rilascio. Esse hanno origine dalla natura particolare del diritto di ritenzione, concepito quale forma di autotutela, di difesa sostanzialmente passiva che colpisce il concorrente diritto al rilascio, non tanto contrastandone i presupposti sui quali esso e fondato, ma facendo valere un diritto che è prevalente e tale da paralizzarlo o sospenderlo. Ma, a ben vedere, si tratta soltanto di una tesi suggestiva che non regge ad una critica appena approfondita.

Si consideri la ratio dell’art. 615 c.p.c. Il senso ed il significato di tale norma sono indubbiamente quelli di concedere una tutela fondata su motivi che non si potevano far valere precedentemente o in altra sede e tali, comunque, da contrastare la legittimità del titolo esecutivo. Quando si parla in dottrina4 di eventuali difetti occulti di estremi obiettivi del titolo o degli altri requisiti dell’azione (sussistenza, liquidità o esigibilità del credito), di difetti occulti di legittimazione attiva o passiva, di rispondenza fra il tenore del diritto e la forma o la materia del processo, quando la giurisprudenza e per l’ammissibilità di tale forma di opposizione in caso di ius superveniens, si hanno ben presenti la funzione e la finalità specifica della norma e non si vuol certo concedere uno strumento per realizzare difese che si potevano e si dovevano attuare in sede di cognizione.

Se tale è la ratio dell’art. 615 c.p.c., non si può che essere contrari alla tesi della opponibilità della ritenzione anche in sede esecutiva. L’affittuario può e deve utilizzare la sua eccezione quando è convenuto per il rilascio del fondo e se egli non attua tale difesa gli è preclusa successivamente ogni opposizione. E’ fin troppo ovvio che egli perderà soltanto il diritto alla ritenzione, rimanendo inalterato ogni suo diritto per l’eventuale credito derivantegli dalle migliorie effettuate.

4) Un breve cenno riguardo alla prova in generale delle migliorie, a carico dell’affittuario. L’art. 15 l. 11 febbraio 1971 n. 11 si riporta alle dizioni usate dal legislatore nell’art. 975 c.c. – qualche prova della sussistenza in genere – e nell’art. 1152 c.c. – una prova generica della sussistenza -, per cui pare lecito pensare che sia ammissibile ogni genere di prova indicata nel titolo II, libro VI, del codice civile senza limitazione alcuna.

Si deve invece ricordare e precisare che l’art. 26 della stessa legge, dichiarando che tutte le controversie sono di esclusiva competenza delle sezioni specializzate agrarie, fa esplicito riferimento alla 1. 2 marzo 1963 n. 320, il cui art. 5 afferma che la trattazione della causa si svolge secondo le norme dettate dagli art. 429 ss. c.p.c. in quanto applicabili.

Se così è, dati gli espliciti riferimenti legislativi, è senz’altro applicabile, anche in tema di prove relative alle migliorie, l’art. 439 c.p.c., per cui il giudice potrà disporre d’ufficio tutti i mezzi di prova che riterrà opportuni, ad integrazione e chiarificazione degli elementi emersi nel giudizio. Riteniamo, tuttavia, che la deroga contenuta nel citato articolo riguardi unicamente il principio di disponibilità, e non anche quello dell’onere della prova, che continua, invece, ad avere la sua piena efficacia. Proprio perché l’art. 15 legge citata richiede che l’affittuario fornisca in giudizio la prova della sussistenza in generale dei miglioramenti, non può essere accolta l’opinione di una certa giurisprudenza5, formatasi in tema di controversie di lavoro, la quale giunge ad affermare che la natura pubblicistica degli interessi in questione comporterebbe il superamento dell’onere della prova, con applicazione integrale del principio inquisitorio.

5) Un problema importante e di notevoli implicazioni pratiche concerne i diritti e gli obblighi dell’affittuario durante il periodo della ritenzione del fondo. Si domanda se l’affittuario possa far propri i frutti pagando unicamente il canone o dovrà integralmente restituirli al proprietario, salvo il rimborso delle spese sostenute per la produzione e il raccolto.

Si noti che il problema è totalmente diverso da quello relativo alla possibilità, per il ritentore, di far propri i frutti imputandoli al suo credito, per il qual problema vi è uniformità di opinioni nel senso di una rigorosa esclusione di tale potere. I dubbi riguardano una situazione ben diversa: nelle more del giudizio e col permanere sul fondo dell’affittuario, che si avvale della ritenzione, il fondo continuerà ad essere coltivato, produrrà i suoi frutti. Ebbene tali frutti competeranno al ritentore o al proprietario e quale sarà il loro corrispettivo?

Ancora una volta ci limiteremo a prospettare le possibili alternative, senza pretesa di dare una soluzione definitiva al problema.

Si consideri la situazione del ritentore. E’ pacifico che, quando si avvale di questa posizione, non ha alcun diritto alla permanenza sul fondo in qualità di affittuario: la ritenzione, insomma, presuppone necessariamente l’avvenuta risoluzione o cessazione del contratto di affitto. Di conseguenza, poichè il diritto di ritenzione, come si è precedentemente visto, è soltanto una forma di garanzia concessa all’affittuario per il pagamento delle migliorie effettuate, è una auto tutela, sostanzialmente ed unicamente passiva, che non gli permette di usare la cosa trattenuta, nè di agire esecutivamente sulla stessa, ma che lo obbliga viceversa a custodirla con la diligenza di un buon padre di famiglia, si dovrebbe arguire, a stretto rigore di logica, che, se egli continua a coltivare il fondo, i frutti prodotti non possono essere suoi per alcun titolo, ma unicamente del proprietario.

La conclusione necessaria di questo discorso è che il ritentore potrà unicamente giovarsi dell’art. 821 comma 2 c.c., per il quale “chi fa propri i frutti deve, nei limiti del loro valore, rimborsare colui che abbia fatto spese per la produzione e il raccolto”.

E’ una tesi formalmente ineccepibile, ma che suscita notevoli perplessità. E se il ritentore, a queste condizioni, non vorrà coltivare il fondo, sarà nel suo diritto o per qualche titolo responsabile? Di fatto, tale prospettiva può apparire poco verosimile od addirittura assurda, ma essa è coerente al limite, con la argomentazione precedente. Si dice in dottrina6 che il ritentore è obbligato a custodire la cosa con la diligenza di un buon padre di famiglia, dovendo rispondere se per sua colpa o dolo essa sia rimasta danneggiata o distrutta: ebbene tale obbligo, trattandosi di un fondo rustico e, quindi, normalmente produttivo di frutti naturali, può comprendere anche quello della coltivazione del fondo?

E’ certo che un fondo non coltivato per un periodo di tempo anche breve subisce danni estremamente gravi, richiederà spese ingenti per la ripresa della coltivazione stessa.

Sono considerazioni senz’altro valide, ma non decisive: fondarsi su di esse per sostenere che la natura particolare della cosa custodita pone a carico del ritentore l’obbligo della coltivazione del fondo, è allargare l’ambito degli obblighi del custode in modo estremamente ampio e non conforme ai principi giuridici della custodia stessa.

Siamo di fronte ad un discorso che, in definitiva, non soddisfa, non tanto sul piano rigorosamente giuridico, ma piuttosto per le conclusioni pratiche cui esso porta, ed indice di queste perplessità sono i numerosi interrogativi di cui lo abbiamo costellato. All’unico scopo, quindi, di introdurre alcuni elementi nuovi di discussione, che ci auguriamo verranno approfonditi, ampliati e magari criticati, aggiungiamo ancora poche osservazioni.

La giurisprudenza è estremamente avara sull’argomento; solo una sentenza del Tribunale di Cagliari7, se pure emessa in tema di possesso di buona fede ex art. 1152 c.c., può essere utilizzata, per analogia, per controbattere la tesi finora sviluppata, la quale attribuisce i frutti del fondo al proprietario. Nella sentenza è detto testualmente: «Il possessore di buona fede titolare del diritto di ritenzione ex art. 1152 c.c., non essendo tenuto al rilascio del fondo sino a che non gli siano corrisposte le indennità per le addizioni (art. 936 comma 2 c.c.), non deve rispondere verso l’attore rivendicante dei frutti percepiti e percipiendi ex art. 1148 c.c.».

Ora, a parte che è assai discutibile l’equiparazione del ritentore al possessore di buona fede, sembra che possano ritrarsi maggiori elementi per controbattere la tesi esposta, dall’art. 1591 c.c., il quale afferma che il conduttore in mora a restituire la cosa è tenuto a dare al locatore il corrispettivo convenuto fino alla riconsegna, salvo l’obbligo di risarcire il maggior danno. E’ un’ipotesi evidentemente diversa da quella in esame, ma ugualmente interessante per il presupposto di fatto da cui ha origine. Infatti la situazione è evidentemente comune al ritentore come al conduttore in mora nel rilascio: la permanenza sull’immobile dopo che è cessato l’affitto, e quindi il godimento del fondo al di fuori del rapporto locativo. Ebbene, se il corrispettivo di base, al quale il conduttore moroso è tenuto, è il canone, salvo il risarcimento del maggior danno, non è ipotizzabile, a maggior ragione, un simile corrispettivo per il ritentore, la cui permanenza sul fondo è fondata sul diritto e non certamente dolosa o colposa? L’accostamento pare ardito, ma non impossibile; è sufficiente, comunque, averlo proposto come ipotesi che va studiata ed approfondita.

6. Alcune considerazioni relative alla valutazione dell’indennità da corrispondersi per le migliorie effettuate precedentemente alla nuova legge sui fondi rustici.

Il punto di riferimento è ancora una volta l’art. 15, più volte citato, il cui ultimo comma recita testualmente: «le disposizioni del presente articolo si applicano anche per i miglioramenti previsti nel contratto e concordati dalle parti e comunque eseguiti in data anteriore all’entrata in vigore della presente legge».

L’elemento nuovo, quasi «rivoluzionario» della norma, è tutto in quell’inciso “comunque eseguiti”, che sovverte la disciplina del codice, la quale nella stessa legge è espressamente abrogata con riferimento agli art. 1632, 1633, 1650, 1651 e 1653 c.c. Se si ha presente tale disciplina, con i limiti e le cautele che essa imponeva, con l’intervento del giudice in via preventiva all’attuazione delle migliorie in caso di disaccordo delle parti, ed in via successiva, nella concessione di una indennità all’affittuario che le aveva eseguite, si coglie immediatamente la portata di quell’inciso, che rivaluta tutte le migliorie effettuate e le rende partecipi di quell’aumento di valore del fondo, sussistente alla fine del rapporto di locazione, che è il parametro al quale deve farsi riferimento per la valutazione dell’indennità da corrispondere.

Una simile interpretazione della norma dà alla stessa un’efficacia evidentemente retroattiva, in apparente contrasto, quindi, con l’art. 11 disp. prel. c.c. Si tratta di un’obiezione sostanzialmente infondata, anche se ampiamente utilizzata in sede pratica al fine di sminuire od addirittura di annullare il contenuto innovativo della norma stessa. La giurisprudenza, infatti, è unanime nel dichiarare che il principio dell’irretroattività della legge, pur essendo certamente un principio generale del nostro ordinamento giuridico, è stato elevato a dignità di precetto costituzionale nel solo campo della legge penale. Da ciò consegue che, fuori di tali ipotesi, tale principio costituisce unicamente una direttiva rivolta al legislatore, che conserva piena facoltà di derogarvi, quando eccezionalmente lo ritenga opportuno. La norma, dunque, è del tutto legittima, per cui può senz’altro affermarsi che l’aumento di valore del fondo, sussistente alla fine del rapporto locativo, dovrà tener conto di tutti i miglioramenti, comunque eseguiti.

Ciò non significa, a nostro parere, che la portata di detto inciso debba considerarsi illimitata e che non possano essere utilizzati ed applicati alcuni principi fissati dalla giurisprudenza. Un simile discorso può farsi soprattutto in tema di prescrizione, per il quale esiste una pregevole sentenza della Carte di cassazione8, che vale la pena di menzionare. La Suprema Corte, occupandosi di un rapporto locativo con affittuario non coltivatore diretto, afferma, in via preliminare, l’autonomia dei singoli contratti che possono essersi succeduti nel tempo e, sulla base di tale assunto, dichiara che la prescrizione del diritto all’indennità per i miglioramenti ha decorrenza dalla data in cui cessa ciascun rapporto contrattuale. La sentenza rileva, infatti, che “alla scadenza del termine di durata del contratto, cessa il diritto dell’affittuario al godimento del fondo e il locatore è libero di affittarlo a condizioni diverse, che tengano conto del suo aumentato valore per effetto dei miglioramenti, per cui è logico che a quel momento l’affittuario possa chiedere l’indennizzo per l’arricchimento di cui, da allora, il locatore può incominciare a trarre profitto. E poichè tale situazione si verifica tanto nel caso in cui il fondo venga affittato ad altri, previa riconsegna da parte dell’affittuario uscente, quanto anche nel caso in cui esso venga riaffittato a costui con un nuovo contratto, ne consegue che la soluzione è la medesima in entrambi i casi: scaduto il tempo stabilito nel contratto per la durata dell’affitto, l’affittuario ha il diritto a chiedere l’indennità per le migliorie eseguite nel contratto stesso, sia che rilasci il fondo, sia che vi rimanga in virtù di un altro contratto, col quale si inizia un nuovo rapporto di affitto”.

Premesso che la sentenza è precedente alla nuova legge sui fondi rustici e che il suo campo di applicazione presuppone una serie di rapporti locativi con affittuario non coltivatore diretto (ovviamente, infatti, non potrebbe parlarsi di singoli, autonomi contratti nel caso di affittuario coltivatore diretto, il cui rapporto è unico nel tempo, essendo soggetto a proroga per volontà legislativa) va detto che essa sembra del tutto valida anche alla luce dell’art. 15.

La portata retroattiva della disposizione non può essere tale da superare la prescrizione del diritto: ciò sarebbe contrario ai principi generali del nostro ordinamento giuridico ed alla stessa ratio della norma, che vuole soltanto rivalutare, ai fini dell’indennizzo anche quei miglioramenti che non furono concordati fra le parti o disposti dal giudice, così come era previsto dal codice civile. Ai fini dell’indennizzo e della valutazione dell’aumento di valore del fondo, non si dovrà dunque tener conto di quei miglioramenti per i quali sia dichiarata la intervenuta prescrizione.

Ne discende che tale limite opererà anche per il diritto alla ritenzione.

Quanto al termine della prescrizione, essa sarà quella ordinaria e non, viceversa quella quinquennale, prevista dall’art. 2948 n. 3 c.c., non potendo il diritto al pagamento delle migliorie considerarsi un corrispettivo della locazione.

NORME DI RIFERIMENTO
art. 15 l. 11 febbraio 1971, n. 11
art. 429, 821, 1152, 1591 c.c.
art. 615 c.p.c.

Il testo integrale della nota all’ordinanza del Tribunale di Mantova, 13 settembre 1971, 20 giugno 1972 è pubblicato su Giurisprudenza di merito, 1973, fasc. 2, pagg. 141-146, pt. 1.

Autore: Claudio Tedioli

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