Fallimento e arbitrato
Il presente saggio vuole offrire una risposta ad un quesito alquanto specifico, non infrequente nelle controversie arbitrali: quali siano le conseguenze del sopravvenuto fallimento di una delle parti, che peraltro abbia omesso di difendersi, sul procedimento arbitrale rituale instaurato anteriormente all’apertura della procedura concorsuale.
In particolare, quale sia la sorte delle domande svolte dal soggetto in bonis verso la controparte poi fallita.
La soluzione necessita l’esame di alcune questioni preliminari: quando si possa considerare pendente il procedimento arbitrale; se esso contempli l’istituto della contumacia e la fattispecie dell’interruzione – riassunzione del processo; se vi sia incompatibilità con le controversie in materia di procedure concorsuali; in caso di risposta affermativa, se essa sia assoluta o dipenda dall’oggetto del giudizio.
1. Premessa, quesito principale e problemi pregiudiziali
Il presente saggio vuole offrire una risposta ad un quesito alquanto specifico ma non infrequente nelle controversie arbitrali: quali siano le conseguenze del sopravvenuto fallimento di una delle parti, che peraltro abbia omesso di difendersi, sul procedimento arbitrale rituale instaurato anteriormente all’apertura della procedura concorsuale1. In particolare, quale sia la sorte delle domande svolte dal soggetto in bonis verso la controparte poi fallita.
La soluzione necessita l’esame di alcune questioni preliminari, la cui rilevanza sarà meglio esplicitata nei paragrafi seguenti: quando si possa considerare pendente il procedimento arbitrale; se esso contempli l’istituto della contumacia e la fattispecie dell’interruzione-riassunzione del processo; se vi sia incompatibilità con le controversie in materia di procedure concorsuali; in caso di risposta affermativa, se essa sia assoluta o dipenda dall’oggetto del giudizio.
2. La Pendenza del procedimento arbitrale
La pendenza del procedimento arbitrale, unitamente alla sua natura rituale o irrituale, sono state considerate, dalla dottrina e dalla giurisprudenza per lungo tempo prevalenti, come determinanti per risolvere i rapporti tra arbitrato e fallimento. Un orientamento più risalente ha escluso tassativamente qualsiasi spazio per metodi di risoluzione alternativi alla giurisdizione ordinaria2, con conseguente improcedibilità delle liti avviate prima della dichiarazione di fallimento. E’ intervenuto, poi, un secondo indirizzo che ha limitato l’inefficacia ai soli arbitrati non ancora instaurati in quanto l’apertura della procedura concorsuale avrebbe determinato ex se l’automatica caducazione della clausola compromissoria sottoscritta dal contraente fallito. Ove, invece, gli arbitri fossero già stati nominati3 – secondo i sostenitori della cd. tesi dicotomica4 – ovvero ove il collegio fosse già costituito – secondo un diverso indirizzo5 – il curatore non avrebbe potuto sottrarsi al vincolo arbitrale. Altre pronunce hanno legato la sorte dei patti compromissori a quella dei rapporti pendenti6 al momento del fallimento, consentendo al curatore di scegliere se subentrare nel rapporto oppure scioglierlo7, altre ancora hanno ammesso che la soluzione arbitrale possa operare ove ricorrano controversie che presentino un mero rapporto di occasionalità con il fallimento8.

Solo recentemente si è riconosciuto che il compromesso (o la clausola compromissoria) per arbitrato, anche irrituale9, costituendo un atto negoziale riconducibile alla figura del mandato collettivo (art. 1726 c.c.) o congiunto, e di quello conferito nell’interesse di terzi (art. 1723, 2° comma, c.c.)10, non è soggetto allo scioglimento in caso di fallimento del mandante. Infatti, in tale ipotesi, non trova applicazione la regola dettata dall’art. 78 L.F.11 per il mandato individuale12. L’apertura della procedura concorsuale non determina, pertanto, l’inefficacia automatica del procedimento arbitrale13 ed il fallimento non è incompatibile con la cognizione arbitrale. Ciò trova ulteriore riscontro nel disposto dell’art. 35 L.F. che consente al curatore (previe le dovute autorizzazioni) di stipulare compromessi14. D’altra parte non pare di ostacolo il richiamo alla competenza inderogabile del Tribunale fallimentare, atteso che la vis actractiva non si estende anche alle azioni che già si trovano nel patrimonio del fallito all’atto del fallimento. In relazione alle controversie già deferite in arbitri, la procedura coinvolge anche l’amministrazione fallimentare15, sia pure con le limitazioni che derivano dalla specialità di rito richieste da alcuni procedimenti16.
2. Contumacia e procedimento arbitrale
Tra gli eventi che determinano l’interruzione del processo, vi è anche il fallimento dell’imprenditore17. Se esso viene dichiarato dopo la notifica o il deposito dell’atto introduttivo (a seconda dei casi), ma prima della costituzione in giudizio della parte, il processo (ordinario) è ipso iure interrotto (art. 299 c.p.c.). Il curatore si può costituire volontariamente, altrimenti l’altra parte deve provvedere a riassumere il processo, nel rispetto del termine di cui all’art. 163 bis c.p.c.
Trasferendo il problema all’ambito in esame, qualora il fallimento della parte18 sopraggiunga anteriormente al primo contatto con l’organo arbitrale, si pone la questione se l’evento determini l’automatica interruzione del giudizio. Una risposta positiva necessita, nel rispetto dell’art. 299 c.p.c., che il procedimento arbitrale sia compatibile tanto con l’istituto della contumacia19 che con quello dell’interruzione. Conformemente alla prevalente dottrina20 e giurisprudenza21, ritengo che, nel procedimento arbitrale, non si possa configurare una situazione di contumacia. Infatti, non è possibile discorrere di attore o convenuto22 (più corretti sembrano i termini ricorrente-resistente), manca una citazione ed una vera e propria attività di costituzione in giudizio23 poiché gli arbitri assegnano (dopo l’instaurazione del procedimento) unicamente un termine per svolgere le proprie difese. Si può verificare, invece, l’inerzia della parte che, sottoscritto il compromesso o la clausola compromissoria, si astenga dal partecipare attivamente alla procedura. Se, dunque, l’assenza di una vera e propria situazione contumaciale non esclude l’applicabilità di quelle disposizioni che offrono protezione da sviluppi del processo non previsti o particolarmente pregiudizievoli24, certamente impedisce l’operatività dell’art. 299 c.p.c.
3. Interruzione e arbitrato
Qualora, invece – nel processo (ordinario) – il fallimento intervenga dopo la costituzione in giudizio, l’evento non ne determina l’interruzione automatica, ma solo dal momento in cui è dichiarato in giudizio dal procuratore o notificato alle altre parti (art. 300 c.p.c.)25.
Si pone nuovamente il problema se l’interruzione operi quando sia pendente il procedimento arbitrale e, conformemente al parere della prevalente dottrina26, la risposta è negativa. Nel codice di rito manca, infatti, una disposizione specifica da cui possa ricavarsi che l’istituto si estenda anche all’arbitrato. Anzi, la tesi contraria è avvalorata dall’art. 820, comma III, c.p.c, che, applicabile al fallimento27, prevede, in caso di morte della parte, una proroga28 (di 30 giorni) dei termini per depositare il lodo e nessuna interruzione29.
Il curatore, dunque, subentra automaticamente nella controversia in corso30 assumendo la posizione del fallito e non può sottrarsi alla decisione degli arbitri31.
4. C’è davvero una incompatibilità assoluta tra arbitrato e fallimento?
Abbiamo avuto modo di chiarire32 che l’incompatibilità tra arbitrato e controversie in materia di procedure concorsuali è solamente relativa e dipende dall’oggetto del giudizio33. Il rapporto tra i due istituti viene, ora, affrontato con specifico riferimento all’arbitrabilità delle questioni inerenti l’accertamento di crediti vantati da un terzo, nei confronti dell’asserito debitore, poi fallito.
La giurisprudenza di legittimità ritiene che l’effetto attributivo della cognizione agli arbitri sia, in ogni caso (sia in presenza di un arbitrato rituale34 che irrituale), paralizzato dal prevalente effetto, prodotto dal fallimento, dell’avocazione dei giudizi aventi ad oggetto l’accertamento di un credito verso l’impresa sottoposta alla procedura concorsuale, allo speciale procedimento di verificazione dello stato passivo, inderogabilmente ed esclusivamente demandato all’ufficio fallimentare35.
Questo principio risponde all’esigenza di concentrare avanti ad un unico organo, individuato attraverso il procedimento stabilito dalla legge speciale, tutte le azioni dirette a far valere diritti di credito sul patrimonio del debitore insolvente. Ciò essenzialmente per assicurare il concorso necessario di tutti creditori concorrenti, un loro contraddittorio potenziale (più esteso nell’eventuale fase di cognizione)e per realizzare, nel simultaneus processus, la par condicio creditorum36. Si comprende, allora, perché tali obiettivi, attese le finalità pubblicistiche del procedimento di accertamento, non possano essere soddisfatti in sede di cognizione arbitrale37 e cioè, in un giudizio privato il cui dictum si configura quale atto di autonomia privata38. Domande di accertamento di un credito, di risarcimento del danno, di compensazione di crediti con debiti39 e, comunque, volte alla declaratoria che il soggetto, poi fallito, è tenuto al pagamento di somme, vanno dichiarate tutte improcedibili40. Il giudizio può continuare, solo ove l’istante lo richieda espressamente, al fine di precostituirsi un titolo opponibile nei confronti del fallito una volta che questi sia tornato in bonis41. In assenza di una specifica domanda, gli arbitri devono dichiarare l’improseguibilità42 anche provvedendovi d’ufficio43, perché il fallimento svolge i suoi effetti sul rito con cui si procede, determinando la carenza sopravvenuta della loro potestas judicandi44. L’improcedibilità, infatti, non va confusa con l’interruzione che, invece, deriva dalla perdita di capacità processuale del fallito e, pertanto, opera senza necessità che la dichiarazione di fallimento sia acquisita nelle forme di cui all’art. 300 c.p.c.
D’altro canto, il procedimento arbitrale prosegue limitatamente ad eventuali altre domande che non abbiano per oggetto l’accertamento di un credito, quali ad es. la risoluzione di un contratto, la verifica dei vizi o ritardi lamentati. In tali ipotesi, l’amministrazione fallimentare subentra45 nel rapporto del fallito, rimanendo pienamente efficace per il curatore la clausola compromissoria dal primo stipulata46. Bisogna, infine, dare conto di una recente giurisprudenza47 che ritiene indispensabile, perché il lodo possa essere considerato opponibile alla massa, che le domande non improcedibili vengano espressamente riproposte nei confronti del fallimento48. La Suprema Corte fonda le proprie argomentazioni sul rispetto del principio della domanda e di quello dispositivo che impedirebbe agli arbitri di sostituirsi alla parte in tale incombenza. Diversa e preferibile è l’opinione della dottrina49, che ritiene necessario, per garantire il rispetto del contraddittorio, non un provvedimento di integrazione ex art. 102 c.p.c. (peraltro, neppure nel potere degli arbitri), ma una sorta di litis denunciatio che consenta al curatore di stare in giudizio in luogo del fallito, posto che non gli è dato rifiutare gli effetti del lodo.
5. Postilla
Ultimata la redazione del presente saggio, il Governo ha emanato due decreti legislativi in attuazione delle deleghe, previste dalla legge per la competitività, che hanno modificato la disciplina del processo di cassazione, riformato l’arbitrato e parzialmente ridisciplinato le procedure concorsuali. Si rendono, pertanto, necessarie alcune notazioni che offrano una prima lettura della novella.
Il D.Lgs 22 dicembre 2005 ha riscritto l’art. 820 c.p.c., eliminando, tra le ipotesi di proroga del termine per depositare il lodo, la morte di una delle parti ed ha regolato gli effetti di tale evento nell’art. 816 sexies. Alla morte della parte, viene, ora, equiparata ogni altra causa di perdita della capacità legale (ad es. il fallimento) e la gestione di tale fenomeno è lasciata alla più ampia discrezionalità degli arbitri. L’articolo, di nuova creazione, prescrive, con assoluta genericità, che gli arbitri assum(a)no le misure idonee a garantire l’applicazione del contraddittorio ai fini della prosecuzione del giudizio.
Nel caso specifico del fallimento di una delle parti, il precetto va collegato con il nuovo art. 83 bis L.F. (introdotto dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, in vigore dal 17 luglio 2006) che testualmente recita: se il contratto in cui è contenuta una clausola compromissoria è sciolto a norma delle disposizioni della presente sezione, il procedimento arbitrale pendente non può essere proseguito. Ciò significa che gli arbitri devono, d’ufficio, dichiarare l’estinzione del procedimento laddove il contratto da cui sorge la loro potestas iudicandi si sciolga per effetto del fallimento. Nell’ipotesi in esame, assume profondo rilievo anche l’art. 72 L.F, totalmente riscritto dal D.lgs. 5/2006, che, ora, regola i cosiddetti rapporti pendenti. Al comma V, è, tra l’altro, previsto:….se il contraente (in bonis) intende ottenere con la pronuncia di risoluzione la restituzione di una somma o di un bene, ovvero il risarcimento del danno, deve proporre la domanda secondo le disposizioni di cui al Capo V. In sostanza, la nuova disposizione prevede che gli arbitri debbano dichiarare improcedibili non solo le domande di condanna al pagamento di una somma, ma anche quelle pregiudiziali, che per giurisprudenza costante, non erano assoggettate allo speciale rito fallimentare di ammissione allo stato passivo.
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Sembrerebbe, pertanto, residuare pochissimo spazio agli arbitrati, se non nei (rari) casi di azioni intraprese dalla parte poi dichiarata fallita in forza di un contratto non sciolto per effetto della dichiarazione di insolvenza.
In tali ipotesi potrebbe (ancora) operare la soluzione del subingresso automatico del curatore nel procedimento in corso, con litis denunciatio ad opera degli arbitri. La formula suggerita sembra rispettare il principio del contraddittorio attraverso la comunicazione della pendenza della controversia, l’assegnazione al curatore di un congruo termine per articolare le proprie difese e prendere parte attiva nel giudizio. Non ritengo, invece, che il precetto di cui all’art. 816 sexies c.p.c. possa essere invocato per dichiarare l’interruzione del procedimento. Infatti, neppure la nuova disciplina contempla la contumacia, la costituzione in giudizio e l’interruzione, offrendo, anzi, agli arbitri un’opzione incompatibile: la sospensione del procedimento. Va detto, infine, che la legge tace o, comunque, è assolutamente vaga in ordine a taluni aspetti pratici: a quale adempimento l’istituto, di applicazione peraltro discrezionale, sia funzionale; se gli arbitri debbano fissare la successiva comparizione avanti a sé; quali, infine, siano le conseguenze della mancata osservanza del loro ordine. Gli arbitri dovrebbero ricorrere alla sospensione del procedimento nel caso in cui onerino una delle parti a dare notizia della lite. Se la parte non ottempera alle disposizioni così impartite per la prosecuzione del giudizio, il collegio potrebbe (solo) rinunciare all’incarico (art. 816 sexies c.p.c.). Se pur con molte perplessità, ritengo, infatti, che la sospensione del procedimento per morte, estinzione o perdita di capacità della parte sia istituto a se stante rispetto all’ipotesi generale di cui all’art. 819 bis e, pertanto, non ne possa mutuare la sanzione dell’estinzione automatica del giudizio. Pertanto, gli arbitri dovrebbero già fissare, con il provvedimento di sospensione, l’udienza avanti a sé, senza necessità di una specifica istanza di parte. Diversamente argomentando non sarebbe, infatti, possibile per loro rinunciare all’incarico ricevuto.
NORMATIVA DI RIFERIMENTO:
artt. 35, 72, 78, 83 bis L.F.
artt. 299, 300, 816 sexies, 820 c.p.c.
artt. 1723, 1726 c.c.
Il testo integrale del saggio è pubblicato su Studium Iuris, 2006, fasc. 5, pagg. 526-532.
Autore: Francesco Tedioli
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